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L'assalto al pane

PUBBLICAZIONI > Frammenti di vita ceccanesi

L’ASSALTO AL PANE
Francesa Massa, con in testa «la scifa» ricolma di pagnotte fumanti, esce dal forno di Ines per consegnare la preziosa mercé al negozio di Lucia Cipriani.
Si ripropongono così atti e gesti quotidianamente ripetuti da mesi e mesi, con meticolosa puntualità.
Questa volta, però, sulla piazza c’è più gente del solito, anche per via del tiepido sole primaverile che ha spinto parecchi ad uscire di casa. Si vedono, co­sì, ragazzi che passeggiano, bambini che schimazano, altri, infine, che si godono il sole pigramente seduti sui gradini della chiesetta. La distanza che Francesca deve percorrere è brevissima, ma sufficiente a far insorgere cattivi pensieri a chi, da tanti mesi, si deve accontentare solamente di 150 grammi di pa­ne ed ora vede passare sotto al proprio naso tutto quel ben di Dio.
Con un’azione imprevista ma sicuramente ben pre­parata, cinque ragazzi improvvisamente si accodano, proprio al centro della strada, all’ignara Francesca, e poi, con un rapido tocco, rovesciano in terra « la scifa» con le relative pagnotte.
Con incredibile velocità, mentre ancora il pane rotola, uno sciame di ragazzi afferra «l’insperato bottino» per dileguarsi fulmineamente subito dopo. L’episodio accade in piazza Madonna della Pace in un’assolata mattina del marzo 1943, dopo tre duri anni di guerra.
Una guerra che avrebbe dovuto essere «lampo» che avrebbe allungato «lo stivale», ma che invece, pro-traendosi, diventa sempre più intollerabile.
Ormai, durante quei giorni, non si dimostravano persuasive nemmeno le bellissime canzoni che veni­vano diffuse, durante l’ora di pranzo, con un efficientissimo altoparlante dalla casa del fascio.
Gli inni patriottici promettenti vittorie militari, rapidi successi e tanta gloria non fanno più presa. È anche il caso di pensare che non è più convincente, né per lo spirito, né per lo stomaco vuoto, neanche quella suggestiva e sempre più «gettonata» canzone il cui ritornello dice: «colonnello non voglio pane, voglio piombo per il mio moschetto».
Ma, senza divagare ulteriormente, è il caso di ritornare in Piazza Madonna della Pace dove la scena, ora, si presenta diversa dopo il blitz compiuto dai cinque ragazzi. Qualcuno, tra gli involontari beneficiati, sta portando il pane a casa, felice di poterlo assaporare nell’intimità della famiglia.
Altri, invece, preferiscono dirigersi verso «la Macchiarella» dove sperano di poter gustare, fra la di­screzione del bosco, l’improvvisa, croccante colazione.
Il diavolo però ci mette la coda ed un certo lacovella, professore di una scuola d’avviamento sita lungo la strada che porta al bosco, informa i Carabinieri sia dell’accaduto che dei ragazzi da tenere sospetti.
Il risultato non tarda a giungere e le famiglie inte­ressate, mentre ancora non suona mezzogiorno al campanile di S. Nicola, ricevono dal Comando dei Carabinieri le prime convocazioni in caserma.
Prima di presentarsi all’interrogatorio di rito, prudentemente, i cinque ragazzi «responsabili» preferiscono sentirsi nella casa di Lellenzo Masi. Preoccupati dei probabili pericolosi sviluppi hanno già provveduto a pagare alla bottegante la loro razione di pane.
Ma ciò non basta. Anzi secondo Felicetto, che è il padrone di casa, proprio questo fatto potrebbe far insorgere ulteriori sospetti nella mente degli inquirenti fascisti.
Si potrebbe, cioè, correre il rischio di far pensare ad «un assalto» organizzato, e forse sollecitato dagli stessi genitori dei ragazzi, con tutte le immaginabili conseguenze del caso.
Ci si accorda, allora, su una linea comune da seguire: II pane non è stato pagato con i soldi dei genitori, e una volta in caserma si dovrà dire che i soldi usati dai ragazzi non sono altro che il ricavato della vendita di ferri vecchi e simili, a suo tempo raccolti dai cinque amici.
Gli interrogatori, presenti il Maresciallo ed il Questore (prontamente accorso in loco), si protraggono, tra intimitazioni e minacce, per tutto il pomeriggio con le autorità preoccupate per il ripetersi del fenomeno e alla ricerca affannosa di un nesso con un ana­logo episodio, verificatosi il giorno prima in località Madonnella, che aveva determinato lo stato di fer­mo, non ancora sciolto di una certa Gina l’Alatrese.
Intanto fuori la Caserma si vanno formando vari capannelli di gente.
Sono in maggioranza curiosi, parenti ed amici degli interrogati che, con il trascorrere del tempo, sempre di più si agitano, parlano, commentano ed ingigantiscono l’avvenimento.
Poco alla volta via Magenta si riempie di persone e la vicenda diventa un fatto cittadino.
Intando all’interno della stazione dei carabinieri l’inchiesta prosegue ed «i cinque imputati», sebbene sotto torchio, confermano tenacemente quanto precedentemente stabilito.
L’unica eccezione viene compiuta dal più grande dei «ribelli», Nino Bruni, che, con un coraggio im­previsto, arriva a rimproverare i troppo zelanti inquirenti di essere dei duri solo di fronte a dei ragazzi, e per una cosa di poco conto, mentre poi si tollera che un commerciante, noto a tutti i ceccanesi, pratichi apertamente ed impunemente la borsa nera.
La giusta osservazione inviperisce ancora di più gli investigatori che non trovano niente di meglio da fare che scaricare le loro paure e le loro debolezze sul malcapitato Nino che, in un battibaleno, si ritrova riempito di calci e schiaffi.
Dopo questa ulteriore quanto inutile aggressione anche i fascisti infine si convingono che dietro alle spalle dei ragazzi non agisce nessuna forza sovversi­va ma solo ed esclusivamente la fame inarrestabile. L’atteggiamento degli inquirenti ora non è più duro, ma diventa paternalistico e la promessa di non ripetere più l’accaduto è il lasciapassare per i cinque.
La loro fame, che è poi la fame di tutti, dovrà essere dimenticata, sopportata e subita.
I «cinque ragazzacci» verso la mezzanotte vengono così rilasciati.

(da II Picchio, novembre 1984)


 
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