Menu principale:
Ai miei genitori,
a Vanessa, a Natalia.
Premessa dell'autrice
Da sempre mi sono sentita legata alla terra, ai suoi prodotti, ai suoi profumi.
Oggi, frequentare di nuovo i luoghi di campagna dove ho trascorso momenti sereni dell'infanzia, mi ha aiutato ad iniziare un cammino a ritroso e ricordare avvenimenti lontani nel tempo ma che la memoria ha conservato intatti. Ricordi legati agli affetti di persone care, a piacevoli emozioni, a dolci tenerezze che documentano anche un costume di vita, una società contadina semplice e per certi aspetti primitiva, dove il lavoro, il sudore, il sacrificio, erano rinconducibili al grande e radicato concetto della famiglia.
Il desiderio di comunicare questo mio ritorno alle radici miè parso tanto naturaleed interessanteda decidermi a fissare sulla carta piccole annotazioni.
Ma come un sasso buttato nello stagno, origina un susseguirsi di piccole onde, così è successo nella mia mente e tutto è cominciato dal ricordo, struggente e tenero, di quando mia madre faceva il pane in casa.
Il pane dunque, ha rappresentato il sasso che ha originato un susseguirsi ininterrotto di ricordi che, iniziando dagli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, si sono estesi fino agli inizi degli anni Sessanta, quando anche nel mio paese si sono verificate grandi trasformazioni che hanno portato cambiamenti nel territorio, nel costume, nella società.
Il periodo di cui scrivo non è stato caratterizzato da grandi eventi (eravamo da poco scampati alla guerra) però si sono avuti dei passaggi significativi attraverso i quali è stato possibile il cambiamento. Ma, proprio perchè non sono successi fatti importanti, si rischia di perdere una memoria orale ricca di aneddoti e di vicende legate al costume, alla tradizione e alla cultura di una piccola comunità che testimonia la vita di gente semplice.
Ecco dunque, "Pane e Companatico". Il pane, elemento vitale ed indispensabile ed il companatico, a volte amaro e intriso di fatiche, a volte tenero e dolce; fattori ambedue indispensabili che hanno determinato la crescita di una generazione nata a cavallo del secondo conflitto mondiale.
Rivolgo, infine, un ringraziamento a Natalino e Maria De Cesaris che mi hanno aiutato in alcuni aspetti specifici. Ringrazio, inoltre, le amiche Maria Luisa e Pina Ciavaglia che nelle fredde domeniche invernali, trascorse accanto al camino della casetta alle Fossatelle, hanno contribuito a ravvivare iricordi.
Il paese, dove sono nata non si discosta molto, per la struttura e le origini, dagli altri centri della Ciociaria.
Giuliano di Roma (http://www.paesionline.it/lazio/giuliano_di_roma/da_visitare_giuliano_di_roma.asp) conserva, infatti, come questi, il tipico aspetto urbanistico della zona, con strette viuzze, caratteristici portali, alcuni significativi resti architettonici e pittorici in qualche chiesa e testimonianze della presenza di un massiccio castello del secolo XIV che fu di proprietà dei Colonna, costruito sulle ceneri di una precedente poderosa rocca, fatta erigere nel medioevo, dai Conti di Ceccano.
Il paese, piccolo e grazioso, è adagiato in collina, a 363 metri di altitudine, alle falde di monte Siserno. Dal suo naturale belvedere è possibile ammirare la verde e leggendaria valle dell'Amaseno.
Se si osserva il territorio circostante, lo sguardo vaga su piccole collinette dolcemente digradanti e fino a qualche anno fa immerse nel verde più intenso, ora alquanto diradato a causa delle numerose costruzioni nate un pò selvaggiamente per tutta la campagna.
Se poi lo sguardo si sofferma su monte Sisemo, allora di colpo ci si sente immersi in un mare di verde intenso ed animato. Dal paese è possibile scorgere ad occhio nudo i rami degli alberi scossi ripetutamente dal vento e sentire i numerosi suoni che solo un orecchio attento e sensibile riesce a distinguere.
L'inconfondibile canto degli uccelli come quello del Cuculo, del Merlo, del Fringuello, della Civetta, lo stormire dei rami di leccio ed il suono di altre piccole voci della natura, contribuiscono a creare una deliziosa sinfonia di note.
Un monte, questo, sempre caro ai Giulianesi, che, fino agli anni Cinquanta, traevano dal suo bosco molta legna da ardere. Oggi rimane solo meta di allegre scampagnate giovanili.
Attraverso un comodo sentiero in poco tempo è possibile raggiungere la cima, che si trova a 789 metri di ' altezza e percorrerne la cresta in tutta la sua lunghezza. Lungo il cammino si possono ammirare piante, arbusti e fiori di estremo interesse. Alcuni di essi appartengono a categorie protette quali ilcorbezzolo, il ginepro e l'orchidea selvatica.
Lungo la cresta, il paesaggio si presenta alquanto diversificato. Alla folta lecceta, che non permette ai raggi del sole di filtrare ed arrivare al suolo, si sostituisce un bosco misto ad un 'ampia zona di conifere, messa a dimora con il rimboschimento degli anni Cinquanta.
In prossimità della pineta il paesaggio si trasforma totalmente. Dalla fitta boscaglia, dove il suolo è reso morbido dalla torba umida ed odorosa, si passa direttamente ad una fredda pietraia, dove nemmeno la presenza delle numerosissime piante di pino, riesce ad' attenuare l'immediata e particolare sensazione che si prova nel trovarsi in questo paesaggio dall'aspetto arido ed inanimato.
Sempre sulla cresta, a tratti, si aprono dei pianori. In questi spiazzi di prato verde, comunemente chiamati "cese" , sorgono alcuni pozzi di acqua piovana, che rappresentano gli unici serbatoi per conservare acqua su questo monte. In prossimità delle "cese'' è ancora possibile incontrare resti di alcuni "pagliari", antiche capanne a forma conica, con la base costruita in pietra, a secco, e con un tetto di "stramma'', sotto il quale i pastori trovavano riparo.
E' un vero peccato che almeno un paio di questi, pagliai non vengano ristrutturati perchè offrirebbero una testimonianza concreta di un passato che ha fatto parte della nostra storia contadina.
Un monte, il Siserno, che va tutelato e preservato perchè rappresenta un'oasi naturale dove sussiste e chissà per quanto tempo ancora, un armonico equilibrio tra tutti gli elementi presenti nel suo territorio.
Continuando ad osservare l'ambiente che circonda il paese, ci si accorge che lo sguardo non spazia all'infinito, per via della catena dei monti Lepini che, snodandosi tutt'intorno, avvolge la piccola vallata e le colline circostanti, proteggendole, durante l'inverno, dalle forti escursioni termiche.
Il territorio di Giuliano di Roma si estende per 3399 ettari, di cui la maggior parte costituito da zone montagnose e collinari e quindi da poca pianura.
Fin dai tempi antichi queste terre erano coperte completamente da boschi, ma i nostri antenati, poco alla volta e palmo dopo palmo, riuscirono a disboscarle e, trasformando il territorio da boschivo in agricolo, iniziarono lentamente a coltivate quei prodotti necessari a soddisfare le loro più immediate esigenze alimentari.
Ma la natura del terreno, in molte zone argillosa e rocciosa, accompagnata da scarse possibilità d'irrigazione, non ha mai permesso un rigoglioso e conveniente sviluppo dell'agricoltura. Tuttavia malgrado le condizioni improduttive del suolo, i nostri nonni, attraverso durissime fatiche, trovarono sostentemento da quei prodotti, che riuscirono, a mala pena, a coltivare.
Per molto tempo, infatti, l'occupazione preminente dei Giulianesi sarà rappresentata dalla coltivazione della terra sia come proprietari che come coloni.
Dal censimento effettuato nel 1951 risulta che, con una popolazione attiva di 1170 persone, 779 erano addette all'agricoltura, 391 in altri rami di attività economiche , quali industria, edilizia, commercio ed impiego pubblico.
Escluse poche proprietà di media grandezza, la restante parte del territorio risultava molto frazionata, a causa delle numerosissime divisioni avvenute nel corso degli anni per motivi di eredità o per l'acquisto diversificato di piccoli appezzamenti di terra. La piccola proprietà, oltre a non garantire il fabbisogno familiare, rappresentava uno dei motivi che non sollecitava l'uso delle nuove tecnologie.
Le condizioni generali della popolazione, che ammontava a 2843 abitanti, erano disagiate ed arretrate.
L'analfabetismo elevato ostacolava una regolare circolazione d'idee e frenava lo sviluppo economico.
L'informazione era oltremodo scarsa: la radio rappresentava un lusso che solo poche famiglie potevano permettersi e non esisteva, inoltre, una rivendita di giornali.
Quando qualche anno più tardi anche Giuliano di Roma vivrà l'intensa stagione del fotoromanzo, "Sogno" e "Grand Hotel" saranno i settimanali più letti e si farà a gara per procurarseli andando a comprarli a Ceccano o a Frosinone.
L'unica strada di comunicazione con Frosinone non era completamente asfaltata; il tratto dal paese al bivio della Palombaralo sarà solo nel 1953. Rimarrà imbrecciata ancora per anni la strada di collegamento con Ceccano. Coloro che possedevano un'automobile si contavano sulle dita, mentre i mezzi di trasporto pubblici erano scarsi ed inadeguati.
Giuliano di Roma era servita dalla ditta Palombo di Villa S. Stefano, che assicurava le corse fino a Roma. I pullmans erano alquanto sconnessi e spesso andavano incontro a guasti meccanici, rimanendo fermi ore ed ore ai margini delle strade.
A tale riguardo, come si può dimenticare la mitica "Zazà", autobus mezzo sgangherato che sbalordiva i passeggeri per la sua ostinata testardaggine nel voler a tutti i costi prolungare l'esistenza, viaggiando imperterrita tra bianchi polveroni ed incessanti scherzi goliardici di studenti, che con affezione usavano questo pullman per recarsi a scuola a Frosinone!.
"Zazà", come ogni autobus dell'epoca, aveva il portapacchi situato all'esterno, sopra iltetto, e vi si accedeva salendo una ripida e stretta scaletta posta sul retro. Qui sopra vi si trovava di tutto: biciclette, pacchi e valigie legati con lo spago, gabbie e scatole di cartone con dentro polli o conigli e quanto altro ancora.
In estate, però, il partapacchi si riempiva spesso anche di persone che preferivano viaggiare al fresco, sul tetto del pullman, anzichè all'interno strapieno di viaggiatori dove ristagnava un'aria maleodorante e appiccicosa.
Oggi queste folkloristiche immagini appartengono al passato perchè i moderni pullmans sono dotati di ogni tipo di confort. Soli in alcuni paesi del centro America è ancora possibile imbattersi in vecchi e traballanti mezzi pubblici stracolmi di persone, nel vedere i quali mi è ritornata alla mente la nostra indimenticabile "Zazà".
In quegli anni i Giulianesi si servivano anche di un altro caratteristico mezzo di trasporto, rappresentato dalla "34" di proprietà di Gigetto De Santis e Tullio Capodaglio. Questo camion che i due si erano portati dietro di ritorno dalla guerra in Africa, veniva adibito al trasporto di qualsiasi merce, non escluse le persone.
Tra i più singolari e avventurosi viaggi che la "34" fece, vale la pena descriverne uno effettuato nell'ottobre del 1947, in occasione del matrimonio tra Ennio e Blandina.
Avevo allora cinque anni ed il vago ricordo di quell'avvenimento riaffiora nella mia mente, come una sequenza di immagini di un film comico-
Il rito fu celebrato a Bassiano, in provincia di Latina, paese della sposa. I familiari e gli amici dello sposo, non avendo altro mezzo a disposizione per recarsi alla cerimonia, decisero di noleggiare la "34".
Per l'occasione, nella parte posteriore del camion, furono sistemate delle panche per far sedere le persone. La mattina della cerimonia, vista l'incessante pioggia che scendeva, fu alzato alla meno peggio un tendone che doveva servire a riparare gli invitati.
La mamma dello sposo, zia Giulia, sedeva impettita in cabina accanto all'autista. Indossava un bel vestito, impreziosito da una splendida parure di orecchini e collana di corallo. Ogni particolare di ciò che ella indossava contribuiva a mettere in evidenza l'atteggiamento dignitoso e altero di cui andava tanto fiera.
Il gruppo degli invitati si presentò quella mattina vestito con molta ricercatezza, come per partecipare ad una importante sfilata di moda.
Le donne indossavano abiti di elegante fattezza, con accessori studiati nei minimi particolari tanto che un cappellino in testa completava la "mise" di ognuna.
Gli uomini, in doppiopetto e capelli ben tirati e lucidi di brillantina, fungevano da perfetti cavalieri e con stile e galanteria, aiutavano le signorine a salire sul camion.
Il viaggio non si svolse nel migliore dei modi se consideriamo che la pioggia, nonostante il tendone, non permise loro di chiudere mai l'ombrello ed il vento riuscì a sconvolgere le tanto ricercate acconciature.
Percorrere su di un camion sconnesso e sobbalzante cinquanta chilometri di strada dissestata, piena di curve e cosparsa di pozzanghere, fu per i nostri protagonisti un'impresa ardua ed indimenticabile. Tuttavia, arrivati a Bassiano, dopo una rapida riassettata, sfilarono per le vie del paese ostentando classe e signorilità. L'obiettivo prefisso era stato raggiunto: il paese intero era rimasto sbalordito al passaggio di quell'elegante corteo nuziale.
A Bassiano, infatti, l'avvenimento risulterà talmente clamoroso che sarà ricordato per diversi anni.
Questo simpatico episodio dimostra come negli anni del dopoguerra la voglia di vivere e di divertirsi fosse tanto forte da ricorrere anche ad espedienti piuttosto singolari. Se capitava l'occasione di uscire dal piccolo paese per partecipare ad una qualunque iniziativa che interrompesse la monotonia quotidiana, la si afferrava al volo ed il divertimento era così assicurato.
I miei cugini ad esempio, noncuranti della mentalità conformista presente in quegli anni, organizzavano delle vere e proprie feste da ballo, che si tenevano in casa, alla "Caciara".
In sala avevamo un bellissimo mobile in legno che racchiudeva una radio e nella parte superiore era inserito uno di quei grammofoni con il braccio non ancora automatico e con la puntina che doveva essere spesso cambiata.
I dischi, numerosi e gelosamente custoditi, erano a 78 giri e non ancora infrangibili.
Le feste si svolgevano alla presenza degli adulti che, seduti in un angolo dall'inizio alla fine, osservavano silenziosamente e non permettevano alcuna licenziosità fra le coppie.
lo mi divertivo molto ed essendo la più piccola ero considerata la "mascotte" delle feste. Ricordo che i miei primi passi di ballo li ho fatti con Lelio, allora fidanzato di Faustina, e con Augusto, mio cugino, che facendo posare i miei piedi sopra i loro, mi davano i primi rudimentali insegnamenti di danza. Ballando in mezzo a tutte le altre coppie mi sentivo anch'io grande e forse già sognavo il mio principe azzurro.
Ma non tutta la gioventù di Giuliano si divertiva allo stesso modo. La maggior parte dei giovani, sia uomini che donne, soggiaceva ad un modo di agire antiquato e moralista.
Il paese non offriva nessuno svago. Non esisteva una sala cinematografica e solo più tardi verrà allestita un' "arena".
Nell'immediato dopoguerra, l'Azione Cattolica si era riorganizzata, promuovendo alcune iniziative tra le quali una filodrammatica frequentata, però, da soli uomini che si dilettavano in 'recite rappresentate nei locali del "Monte", alla presenza di un folto pubblico.
Chi non studiava, passava il tempo a bighellonare per il paese, aspettando un lavoro o sognando un impiego; altri, più fortunati, trascorrevano la domenica pomeriggio ,andando a vedere la partita di pallone a Frosinone o a Ceccano.
A Giuliano di Roma non c'era un campo sportivo ed i giovani erano costretti a percorrere molta strada a piedi per cercare un prato che vagamente somigliasse ad un campo, per potervi giocare una partita di pallone. Ma quando, finalmente, lo avevano trovato e da poco avevano iniziato il gioco, all'improvviso spuntava imprecando a gran voce il proprietario del terreno, che agitando un bastone o una forcina, li redarguiva aspramente, tanto da costringerli di corsa ad abbandonare la partita da tempo fortemente desiderata.
Il destino delle ragazze era ancora più avvilente. La maggior parte di esse accudiva alle faccende domestiche e l'unica distrazione consentita loro era quella di recarsi nel pomeriggio al laboratorio delle suore, dove tra preghiere e pettegolezzi vari, imparavano a ricamare. Nella grande e fredda stanza innumerevoli dita sfioravano candide lenzuola e tovaglie, lasciando su di esse il segno di un'arte raffinata e minuziosa.
Le giovan itascorrevano, così,le stagioni ricamando il proprio corredo e sognando di convolare presto a nozze.
Nessun'altra distrazione, salvo che per poche temerarie, era concessa loro.
Si dovranno aspettare gli anni Sessanta per avere l'innalzamento della soglia dell'obbligo scolastico. Fino ad allora le donne non erano incoraggiate nè aiutate ad ottenere un'istruzione superiore alla licenza elementare.
Attraverso l'esame dei dati pubblicati nel censimento relativo al 1951, è possibile ricostruire il livello d'istruzione presente in quegli anni a Giuliano di Roma.
L'indagine è condotta su 2510 abitanti residenti, in età dai sei anni in poi.
L'analfabetismo era presente in 709 casi di cui 446 erano donne; i semianalfabeti ammontavano a 354; coloro che possedevano la licenza elementare erano 1361 di cui 640 donne e 721 uomini.
I forniti di licenza di Scuola Media Inferiore erano 43 di cui 7 donne; di Scuola Media Superiore (classica, scientifica, tecnica e magistrale), erano 35 di cui 14 erano donne. Infine i laureati erano appena 8, tra cui una sola donna.
Dalla lettura di questi dati emerge una situazione che rispecchia quella ampiamente diffusa in tutta l'area centromeridionale. Va considerato altresì che molte persone, pur avendo conseguito la licenza elementare, subivano l'analfabetismo di ritorno. Infatti, a causa dr mancanza di stimoli adeguati e avendo trascurato l'esercizio della lettura e della scrittura, riuscivano appena a far di conto e ad apporre la propria firma.
L'altro elemento che emerge da questa analisi è che la discriminazione tra i due sessi era tale che la voce dei dati riferiti alle donne viene completamente omessa.
Fortunamente gli anni successivi al 1950 furono caratterizzati da un graduale aumento di studenti di Scuola Media Inferiore e Superiore, anche di sesso femminile, sebbene ci fossero per quest'ultime molti ostacoli da superare, quali, ad esempio, la difficoltà a viaggiare quotidianamente in promiscuità per poter frequentare una scuola fuori dal paese.
Esisteva anche la possibilità per le appartenenti a famiglie benestanti di andare in collegio, ove avrebbero ricevuto un'adeguata istruzione ed una severa educazione.
I pochi stimoli culturali che il paese offriva non erano alla portata di tutti, ma solo di alcune persone.
La maggior parte degli adulti, dopo il lavoro, trascorreva qualche ora al bar giocando a carte, mentre il tempo libero delle donne veniva occupato per la preparazione delle numerose ricorrenze religiose.
Queste, oltre ad assolvere a bisogni e desideri propriamente religiosi, assumevano un grande valore di aggregazione sociale, rappresentando il fulcro attorno al quale si muoveva, a scadenze costanti, l'intera collettività.
L'impegno non consisteva solo nel partecipare assiduamente a messe, tridui e novene, ma nell'occuparsi anche dell'organizzazione delle frequenti processioni, che coinvolgevano tutto il paese. Ricordo i lunghi preparativi che si facevano per le festività riguardanti alcuni Santi, quali ad esempio S. Biagio, Sant'Antonio, S. Rocco, e per le feste del Corpus Domini, il Sacro Cuore, la Madonna della Speranza ecc.
In ogni mese c'era una ricorrenza religiosa, che andava rispettata e preparata minuziosamente. Nelle processioni si abbelliva tutto ilpercorso con le bandierine e con le "catenelle" che venivano confezionate a mano da tutti gli abitanti del vicolo interessato. Con fogli multicolori di carta velina e con grezza colla fatta in casa, impastando farina ed acqua, si confezionavano questi semplici ma scenografici addobbi che, appesi lungo i muri e tra una finestra e l'altra, davano agli angusti e bui vicoli un tocco di colore e luminosità. Dopo la processione gli ornamenti venivano accuratamente piegati e riposti per essere di nuovo usati nella successiva ricorrenza.
Il clima gaio e movimentato diventava molto più febbrile nella preparazione della processione del Corpus Domini. Imbiancare i vicoli, fissare le corde per esporre i migliori capi del corredo e procurare ifiori per l'infiorata, rappresentavano azioni che prevedevano tempo e lavoro. L'Ostia Consacrata che, solennemente veniva portata in processione, era accolta nei vicoli del paese, con grande magnificenza e le donne esponevano lungo i muri e dalle finestre delle proprie abitazioni preziosi capi di corredo, riesumati nei vecchi bauli ed usati solo in rarissime circostanze familiari.
A queste singolari esibizioni, che formavano una sorta di museo all'aperto, faceva da sfondo il bianco accecante dei muri. Il fresco odore della calce da poco spruzzata, l'inebriante e dolciastro profumo delle ginestre appena colte che predominava sugli altri fiori ed il clima particolarmente suggestivo che sprigionava questo evento religioso, contribuivano a creare nei presenti un parti colare stato d'animo, come un'estasi, che li predisponeva a distaccare la mente dalle cose materiali per avvicinarli spiritualmente al soprannaturale.
Rìcordi, questi, che difficilmente si dimenticano perchè carichi d'incanto e di suggestione e, nel mio caso, legati in particolare a via Cavour che, non a caso, ritenevo il vicolo meglio adornato perchè in questo luogo ricevevo un singolare genere di dolcezze. Infatti, quando da bambina, vestita da "Angioletto", partecipavo a questa processione, mi accadeva che in prossimità dell'abitazione di zia Iole Aversa, d'un tratto, tra un pregiato copriletto damascato ed una raffinata tovaglia, spuntava la sua mano e depositava nel cestino dove tenevoi petali di fiori, una manciata di squisite caramelline. Oggi, da grande, sono convinta che questo dolce episodio ha inciso, in modo preponderante, sul giudizio che avevo di tutto il vicolo.
Ogni anno, infatti, tra maggioe giugno, in occasione di questa ricorrenza religiosa, da Giuliano partiva una folta compagnia di pellegrini che a piedi si recava al Santuario della SS. Trinità, situato sul monte Autore, fra i monti Simbruini.
La partenza avveniva all'alba, dopo la celebrazione della prima messa, dove ipellegrini ricevevano dal Parro co una particolare benedizione. Sulla piazza della Chiesa si radunava un gran numero di Giulianesi per assistere alla partenza della compagnia e molti preferivano seguirla fino alla chiesetta della Madonna delle Grazie.
Qui, tra la commozione generale e le ultime racco mandazioni, i pellegrini lasciavano parenti ed amici per inoltrarsi nella stradina che conduce alla Fontana del Prete, iniziando così il lungo cammino che Ii avrebbe portati, dopo giorni di sacrifici e privazioni, alla meta desiderata.
Il percorso era alquanto accidentato, poiché non sempre si camminava su strada carrabile. Spesso si procedeva su mulattiere e stretti sentieri di montagna, portando a spalla l'occorrente per il viaggio. In verità, riposti in un fazzolettone o in una sacca di tela, avevano solo lo stretto necessario che consisteva in pane raffermo che, all'occorrenza, veniva ammorbidito con l'acqua, olive, uova sode, qualche salciccia. Uno scialle o unavecchia coperta militare e qualche altra cosuccia di poco conto completavano il bagaglio.
Non esistevano particolari necessità alimentari, nè tantomeno divestiario e le stesse esigenze igieniche erano quasi del tutto ignorate.
Durante il cammino si effettuavano alcune soste per mangiare e per riposare. Di notte si dormiva poche ore, sistemandosi lungo il ciglio di una strada o, se si aveva più fortuna, ci si allungava sul sagrato o nell'interno di qualche chiesetta che, preti misericordiosi, lasciavano aperta per dare asilo ai pellegrini, che in questo periodo transitavano numerosissimi provenienti da tutti ipaesi del basso Lazio.
L'obiettivo era quello di arrivare al Santuario e adempiere così al voto fatto, per cui si procedeva o sotto un sole cocente o una pioggia sferzante, noncuranti dei possibili malanni. Lungo il cammino si recitavano preghiere e litanie ma non si escludeva un sano divertimento mescolando, accompagnati dal suono dell'organetto, canti sacri e profani.
Durante il pellegrinaggio, inoltre, si coglieva l'occasione per consolidare le amicizie che venivano siglate con il rito di comparanza. Questa singolare cerimonia consistevanell'immergerenell'acqua gelida del Simbrivio, che allora scorreva copiosa dalla montagna, la mano destra dei due amici agganciando, i mignoli e pronunciando alcune parole e preghiere. Terminato il rito si diventava compari per tutta la vita.
La compagnia, che normalmente procedeva alquanto sparpagliata, si riordinava all'ingresso dei paesi situati lungo il tragitto: Frosinone, Alatri, Guarcino, Vallepietra. In queste occasioni veniva innalzato lo stendardo e si procedeva uniti ed ordinati dietro di esso.
"Cuccheo", personaggio singolare, apriva la processione e, con il suono martellante del suo tamburo, dava tono e ritmo al canto che vigorosamente usciva dalle ugole stanche di pellegrini. L'inno alla Santissima, lungo e coinvolgente, riecheggiava tra i vicoli stretti e bui del paese, provocando profonda commozione tra gli abitanti che, numerosi, accorrevano per assistere al passaggio ella compagnia.
I Giulianesi avevano per lo stendardo (il drappo che riproduce l'effige della Santissima Trinità) una speciale affezione, poichè esso veniva donato alla comunità esclusivamente come ex voto.
Durante il pellegrinaggio veniva preso in custodia da persone particolarmente devote o da chi aveva una speciale grazia da chiedere.
Dopo aver superato gli Altopiani di Arcinazzo e risalito la stretta stradina, finalmente, giungevano a Vallepietra. Attraversato il paese ipellegrini arrivavano nella piccola chiesa parrocchiale dove, continuando a cantare, entravano in ginocchio fino al quadro raffigurante la Triade, per poi accasciarsi esausti sui banchi. Ogni tanto il canto s'interrompeva per dare sfogo ai lamenti, alle invocazioni, alla commozione generale. Poi, all'improvviso, qualcuno gridava "Evviva, evviva la SS. Trinità" e tutti alI'unisono ripetevano per tre volte questa invocazione.
A questo punto la compagnia, fiaccata, si scioglieva, ed i pellegrini uscivano sulla piazzetta del paese ed a gruppetti sostavano per mangiare e riposare qualche ora.
Nel pomeriggio, ci si rimetteva in viaggio per ffrontare l'ultimo sforzo: la scalata del monte Autore. Questo percorso era pieno di insidie e pericoli, poichè era uno stretto e ripido sentiero di montagna che si snodava tutto n salita, tra sassi in bilico e acqua gelida che bisognava attraversare.
Usciti da Vallepietra e prima di affrontare la montagna, si oltrel?assava un ponte dove l'acqua del Simbrivìo scorreva fredda e tumultuosa. u questo ponte ogni pellegrino gettava dei sassi a discolpa dei peccati commessi, per presentarsi alla Divinità con l'animo purificato, ed anche per tutti quei parenti e amici verso i quali si chiedeva una intercessione speciale.
Era, inoltre, molto in uso affrontare la montagna a piedi scalzi, arrivando in cima al Santuario con le estremtà lacerate e trafitte. uesto ulteriore sacrificio veniva affrontato per dare più forza alla richiesta della grazia.
Durante il periodo relativo alla festa della SS. Trinità il monte Autore brulicava di pellegrini che invadevano la montagn;a ed i loro canti riecheggiavano fin giù nella valle producendo un effetto magico e suggestivo.
L'arrivo al Santuario esprimeva il momento più alto della commozione.
Nell'interno della buia e stretta grotta, avveniva l'esplosione delle implorazioni. Il canto si spegneva ed ogni pellegrino procedendo in ginocchio, si avvicinava alla Sacra Rappresentazione implorando la grazia tra lamenti, pianti e grida. Ogni tanto si levava un grido che lacerava gli animi ed esclamava "Grazia SS. Trinità!Grazia!" e tutti all'unisono ripetevano l'accorata implorazione. Uscendo dalla grotta, la compagnia affaticata e desiderosa di riposo, cercava un posto per trascorrervi la notte.Il giorno seguente era dedicato alle funzioni religiose e la domenica ci si riorganizzava per ripartire.
Mentre le donne si preoccupavano di comprare medagliette, santini, rosari e fiori di carta da riportare a parenti e amici, gli uomini s'inoltravano per stretti ed impervi sentieri tra le rocce, per raccogliere una particolare verdura"Pennacchi", esili fili di erba con i quali adornavano le loro mazze.
Il bastone, di cui tutti si erano premuniti salendo la montagna, veniva spesso scalfito con piccoli e taglienti coltellini e adornato di fiori veri o finti, ostentato durante tutto il viaggio e orgogliosamente riposto in casa.
Il ritorno avveniva la domenica e non si affrontava tutto a piedi ma si approfittava di mezzi meccanici soprattutto di camion, per arrivare il pomeriggio, alla Madonna delle Grazie dove tutta la popolazione di Giuliano era in trepida attesa aspettando il ritorno della compagnia. Dopo calorosi abbracci e saluti, iniziava una spettacolare e folkloristica processione, tra le più belle e commoventi di tutte le manifestazioni religiose. Un'infinità di roselline di carta multicolore, mista a fiori veri adornavano il pellegrino in più parti: tra i capelli, al collo, sul bastone, sul petto e sul cappello degli uomini. Vicino ai fiori, in bella mostra non solo veniva esibito il santino di carta raffigurante la Triade, ma erano appuntate una serie di spillette, tutte opportunamente benedette, da rega lare a parenti ed amici. Tutta la popolazione seguiva cantando al suono del tamburo e dell'organetto, lo stendardo anch'esso costellato di roselline di carta colorata per arrivare, infine, in piazza S. Maria Maggiore, dove si concludeva la processione.
Lo stendardo veniva accuratamente riposto in sagrestia per essere di nuovo usato l'anno successivo.
Oggi la devozione per la Santissima Trinità è ancora viva e radicata, ma è cambiata la tradizione e la maggior parte dei Giulianesi preferisce recarsi al Santuario con l'automobile. Ma c'è ancora chi continua a praticare la vecchia usanza di organizzare pellegrinaggi a piedi. Ogni anno, infatti una compagnia, in verità sempre molto numerosa, si reca a piedi al Santuario ricalcando, con devozione, i passi che i nostri avi hanno percorso.
Certo i tempi sono cambiati, i sacrifici non sono più gli stessi, le comodità attenuano il disagio, ma ciò che rimane immutata è la fede e la convinzione che il sacrificio personale rappresenti il mezzo per eccelenza più degno, per instaurare un rapporto più diretto con la Divinità ed avere maggiori opportunità che la grazia venga concessa ed il proprio desiderio venga esaudito.
Il clima del tutto speciale che si viene a creare tra i pellegrini, contribuisce ad alleggerire le difficoltà ed a superare momenti particolarmenti critici.
Le donne del paese, sempre vigili ed attente, non solo dedicavano il loro tempo libero alle festività religiose, ma anche verso tutti gli altri avvenimenti che riguardavano la piccola comunità. Insomma, nonostante l'assoluta mancanza di svago, e di divertimento programmato, non c'era pericolo d'incorrere nella noia.
Tutto veniva vissuto coralmente e non era concesso condurre la propria esistenza con riservatezza poichè qualunque fatto si diffondeva a velocità sorprendente.
Se, ad esempio, una famiglia veniva colpita da un lutto, l'intero paese partecipava al dramma e ne rimaneva emotivamente coinvolto. In questo modo la collettività svolgevaun ruolo terapeutico rendendo il dolore più lieve ed accettabile.
Uno dei modi per distrarre i familiari colpiti dal dolore consisteva nel recarsi in casa del defunto per la veglia notturna. Questo ruolo veniva esercitato da particolari donne dotate di una singolare presenza di spirito ed una forte capacità comunicativa. Elle puntualmente si presentavano, tristi ed addolorate ad ogni veglia, allo scopo di recare conforto ai familiari del defunto, ma soprattutto per aiutarli a "passare la nottata". Attraverso il loro continuo chiacchierio, tra un "Deprofundis" ed una litania, sciorinavano una serie di racconti e pettegolezzi sulle più assurde e comiche situazioni successe a vari personaggi del paese, determinando, attraverso l'esasperazione dei fatti, un clima tragi-
La vita nel paese, insomma, trascorreva"impicciandosi" dei fatti altrui, contribuendo però, attraverso una costante attenzione a far rispettare integralmente le usanze. Se due giovani, ad esempio, si fidanzavano erano tenuti a mantenere alcuni obblighi. II 3 febbraio, in occasione della fiera di S. Biagio, il fidanzato doveva inviare alla fidanzata un cesto colmo di arance. A Pasqua la fidanzata contraccambiava il gesto, inviando al fidanzato un abbacchio, una pizza dolce di ventiquattro uova ed una camicia. A Ferragostoil fidanzatoinviava alla ragazza un grosso cocomero. Per le nozze, invece, i preparativi erano lunghi e laboriosi. L'usanza voleva che il pranzo fosse riservato solo ai
Iniziava con gli sposi, subito seguiti dai parenti e amici più intimi e man mano gli altri invitati, tutti, accuratamente abbigliati.
Lo scopo consisteva, fondamentalmente, nel mostrare agli abitanti del paese, che numerosi accorrevano al passaggio della sfilata, lo sfarzo della cerimonia.
I bambini, che a frotte seguivano il corteo, aspettavano che qualche invitato, festosamente, gettasse in aria dei confetti, per precipitarsi tutti insieme a raccoglierli.
Le abitudini erano moltissime e la maggior parte della popolazione le rispettava scrupolosamente. Un'altra delle molte regole osservate era ad esempio, quella che riguardava la puerpera. Quando la donna partoriva non poteva uscire di casa se prima non aveva consumato un certo periodo d'isolamento, trascorso il quale doveva come primo atto recarsi in Chiesa per essere benedetta e riammessa nella comunità parrocchiale. Essa veniva accolta dal sacerdote sulla soglia della chiesa ed insieme ne percorrevano il perimetro interno recitando preghiere.
Anche al nascituro non era consentito uscire di casa se prima non aveva ricevuto il sacramento del Battesimo.
Il rito veniva celebrato in chiesa, alla presenza dei padrini, dell'ostetrica e dei parenti. I genitori ne erano esclusi e rimanevano a casa. Il bambino dopo essere stato accuratamente vestito con indumenti bianchi, finemente ricamati a mano e con aggiunta di nastri e merletti, veniva condotto in chiesa dalla levatrice.
Il corteo iniziava con una schiera di bambini, tutti vestiti a festa, che procedevano compìti e contenti del ruolo che erano stati chiamati a svolgere. Alcuni reggevano un asciugamano di spugna o di tela colorata di fine fattezza, ma quello speciale che serviva per asciugare il capo del battesimante era di candido lino bianco ricamato a mano. Altri portavano una brocca con l'acqua, una pagnotta di pane ed una candela, tutti elementi necessari allo svolgimento del rito.
Seguiva la levatrice con in braccio il nascituro ed ipadrini e parenti che chiudevano il corteo. Terminata la cerimonia, si ritornava a casa con la madrina che teneva in braccio il piccolo.
Ai bambini del corteo battesimale come ricompensa, veniva dato un pacchetto con dentro un biscotto, un confetto e qualche altro dolcetto secondo le disponibilità della famiglia del neonato. Alle festività di tipo religioso se ne alternavano altre di sapore laico, quali ad esempio il Capodanno ed il Carnevale.
Ogni fine ed inizio anno, a Giuliano si riproponeva una singolare tradizione, oggi completamente scomparsa.
La sera del 31 dicembre, un gruppetto di uomini, si recava di casa in casa per augurare una buona fine ed inizio anno nuovo. Gli auguri venivano estesi a tutte le famiglie di Giuliano, iniziando dalle case dei notabili.
Questi improvvisati cantori, accompagnati da semplici strumenti musicali, cantavano davanti ad ogni portone la seguente nenia augurale che iniziando dal capofamiglia, veniva estesa a tutti gli altri componenti: "Bonì bonanno, semo arrivati alla prima degli anno, a Peppino Fabi gli bon capod'anno".
Terminato il canto, essi venivano accolti in casa ricevendo, come compenso, qualsiasi genere alimentare (salsicce, farina, vino, olio, ecc.), oppure soldi, senza tralasciare, ovviamente, un brindisi di buon anno.
Ricordo che in famiglia si aspettava con gioia questa simpatica ed originale forma di augurio.
La serata che ci vedeva tutti riuniti, parenti ed amici, si svolgeva all'insegna del buon umore e dell'allegria con giochi, danze e canti, ma acquistava più calore e folklore all'arrivo dei suonatori. Mentre le note augurali si diffondevano nella casa, di colpo tutti zittivano ed ascoltavano, attendendo con ansia che da un momento all'altro anche il proprio nome venisse pronunciato. Questa piacevole tradizione è andata scomparendo attorno agli anni Sessanta. Noi in famiglia abbiamo continuato, negli anni successivi a mantenerla viva, ma in seguito, venendo meno il valore familiare della festa, anche noi abbiamo smesso di praticarla.
Un' altra tradizionale ricorrenza era il Carnevale che a Giuliano non veniva vissuto con sfarzo e ricercatezza di maschere. Esso era vissuto molto paesanamente e, stranamente, veniva considerato esclusivamente un divertimento degli uomini adulti e non dei bambini.
I travestimenti avvenivano in gran segreto, per mantenere l'anonimato ed erano alquanto comuni poichè ci si limitava ad indossare vecchi abiti femminili recuperati negli armadi di famiglia: abiti da sposa, gonne, corpetti, pastrani e mantelli.
I "màscari" così venivano chiamati, si raggruppavano in squadre provenienti dalla stessa zona e muniti di più strumenti musicali, suonando e ballando sfilavano per i vicoli del paese per convergere tutti a Borgo Vittorio Emanuele, dove la festa continuava fino a tarda notte. I bambini non si mascheravano, ma accompagnando la sfilata per le vie del paese esclamavano, a gran voce, la seguente filastrocca: "essugli'è (eccoli) ..... essugli'è .. ... essugli ..... eccogli essugli'è e infine: "è issu (è lui) ... è issu ... è issu ".
Si trattava di un incitamento rivolto agli abitanti del vicolo per farli uscire di casa ed assistere al passaggio della sfilata carnevalesca. Quando i "màscari" erano invitati a entrare nelle case, non proferivano parola per timore di essere riconosciuti ma comunicavano con i padroni di casa attraverso una studiata e ben riuscita gestualità.Un'altra singolarissima consuetudine che a differenza di molte altre è ancora in uso, consisteva nel suonare i bidoni dopo ogni consultazione elettorale. Nata nel dopoguerra, con le prime votazioni, non ha mai smesso diesistere ed è praticata solo a Giuliano e in nessun altro paese limitrofo.
Sebbene da molti considerata incivile e alquanto discutibile, di fatto, oramai rientra nel costume paesano. Durante ogni consultazione elettorale la popolazione di Giuliano vive un intenso e movimentato periodo in cui, a causa di opposte fazioni politiche, vengono a formarsi netti schieramenti. Questo clima così ostile fra persone, ha origine sicuramente con le prime elezioni quando, lo scontro fra DC ed i socialcomunisti era da vera guerra fredda.
Alcuni frammenti di stornelli che si cantavano come ad esempio il seguente, conferma solo parzialmente questo clima di contrapposizione: "Nenni e Togliatti hanno fatto un brutto sogno, il 18 aprile volevano fare un imbroglio".
L'eccessiva personalizzazione e l'accentuata faziosità che si veniva a creare, produceva aspri diverbi di non facile e rapida soluzione tra parenti o amici di lunga data che non condividevano la stessa scelta elettorale. In effetti avveniva questo: ad ogni risultato elettorale lo schiera mento che vinceva non si limitava a festeggiare il risultato alla grande, ma si premuniva di bidoni e di campanacci e andava nelle case dei perdenti a suonare con insistenza per sbeffeggiarli. Nei giorni successivi al risultato elettorale, vista la condizione generale di prostrazione psicologica che incombeva su tutti coloro che avevano perso, la soluzione più saggia per questi, era di rimanere rintanati in casa per diversi giorni, perchè se si azzardavano' a mettere la testa fuori dall'uscio di casa, da postazioni inimmaginabili, di colpo riecheggiava il martellante ed ossessivo suono dei bidoni. Si arrivava al parossismo di non poter uscire nemmeno di notte perchè c'era chi montava la guardia pronto a seccare "il nemico".
La sera del risultato elettorale oltre al suono dei bidoni che riecheggiavano per tutto il paese, le donne del . raggruppamento vincente si riunivano in piazza S. Rocco. Tra le protagoniste di questo carosello vanno ricordate: Maria la Giubba, Mimmina Cipolla, Maria Severino, Tuta Cipolla, Argia e le figlie, ecc. ecc. A mo' di sfottò verso le altre donne dello schieramento opposto, inscenavano un circolo ballando, cantando e mimando fino allo sfinimento la seguente tiritera: "Ciripì, ciripà, Ninetta alla finestra è tutta incipriata, ciripì, ciripà ecc .. ''.
Oltre a queste vicende post elettorali, merita di essere ricordato che c'era anche chi si dilettava a comporre versi Satirici su arie di canzoni famose che venivano cantate da tutti i simpatizzanti. I seguenti versi furono scritti da Angelo CoccareIli, singolare poeta satirico, sull'aria di "Partono i bastimenti": Partono gli oratori, daTorino e daMilano, vengono a far comizi qui a Giuliano.Parlano di 'acquedotti, di strade e fognature, san tutte fregature e noi delusi ci tocca star".
Oggi il suono dei bidoni e dei campanacci ancora s'ode nel paese ma ha perso quell'intensità ed in particolar modo quella crudeltà che lo caratterizzava.
Se tutte queste usanze e molte altre ancora, per un verso rappresentavano per la popolazione un mezzo per socializzare e sentirsi uniti, non facilitavano, però, l'ingresso di nuove idee. Nel paese predominava un tipo di mentalità chiusa e per alcuni aspetti bigotta che perdurerà per molti anni e sarà dura a morire.
Noi, giovani degli anni Sessanta, infatti, saremo ancora impegnati a superare la barriera del pregiudizio e dell'incomprensione, ma la voglia e l'entusiasmo di vivere, accompagnata dall'inventiva ci permetteranno di cogliere le opportunità che le varie situazioni ci offriranno.
I nostri ingenui divertimenti erano ritenuti scandalosi ed il prete nelle messe domenicali, non dimenticava di alludere al nostro "insano" comportamento che, a ben vedere, si riduceva solamente nell'andare a passeggio sotto gli,occhi di tutti, oppure a fare qualche scampagnata insieme a ragazze e ragazzi.
Era nostra consuetudine che i ragazzi s'incamminassero prima e noi donne successivamente, per incontrarli in prossimità del Santuario della Madonna della 'Speranza. Da qui, finalmente insieme, ci prendevamo la licenza di passeggiare uno accanto all'altro fino alla Madonna le Grazie e ritorno. La comitiva si scioglieva in vista della mia abitazione che per tutti rappresentava un incubo, in quanto prima postazione della comune pressione familiare. In un centinaio di metri, insomma, si consumavano i nostri sogni e le prime tenerezze.
Nel 1958 la mia comitiva decise di organizzare unagita a Cacume. Impiegammo più di un mese per convincere i nostri genitori a darci l'approvazione. Nei giorni precedenti, questo nostro desiderio era stato conosciuto anche da Don Alvaro che aveva manifestato energicamente la propria contrarietà. Finalmente dopo tante insistenze ricevemmo il beneplacito di tutti, grazie ad alcuni nostri compagni che offrivano un'ulteriore garanzia in quanto giudicati "seri e di chiesa". Anche il prete ci dette l'assenso ponendoci però le seguenti condizioni: le ragazze, eccezionalmente, avrebbero potuto indossare i pantaloni ma solo fuori il paese, ed una volta arrivati sulla cima di Cacume, Gaetano Aversa avrebbe dovuto farci recitare il rosario. Condizioni allequali scrupolosamente tutti ci attenemmo, pur di andare.
Oggi sicuramente farà sorridere sapere che in quegli anni, indossare i pantaloni, rappresentava un serio problema morale.
lo, che fin da bambina li usavo quotidianamente, mi chiedevo perchè questo abbigliamento fosse fonte di scandalo, ma non ho mai ricevuto un'esauriente risposta. A tanti anni di distanza, molto serenamente, mi sento di affermare che indossarli non significava per me ostentare civetteria nè tantomeno essere irriguardosa verso la morale religiosa, li trovavo solamente molto pratici e comodi.
Probabilmente anche le mie amiche li ritenevano pratici ma non si azzardavano ad indossarli solo per non essere oggetto di pettegolezzo.
Sebbene noi giovani ci sentissimo soffocati da questi stupidi pregiudizi e dal falso perbenisrno riuscivamo, aiutandoci con piccole bugie e qualche sotterfugio, ad organizzarci gioiosamente le vacanze.
Erano gli anni del grande Elvis, dei Plathers e dì Paul Anka. Nelle calde giornate d'estate la radio trasmetteva ripetutamente i successi dei cantanti più in voga. Noi non ci limitavamo a canticchiarli. Quasi ogni giorno, verso le due del pomeriggio, quando la calura stroncava il respiro a tutti e conciliava la siesta pomeridiana, con studiata disinvoltura uscivamo di casa e ci recavamo da Maurizio Anticoli ed esattamente in casa di suo zio Don Alfredo, prete per quei tempi sicuramente anticonformista, che ci permetteva non solo di riunirei ma anche di ballare. Nella piccola sala da pranzo trascorrevamo innocentemente un paio d'ore, poi come tante Cenerentole al ballo di mezzanotte, di corsa a casa per rientrare prima che le nostre mamme si svegliassero dal riposo pomeridiano e potessero accorgersi della nostra assenza.
In questi anni si ripeterà anche l'esperienza di approfittare di un camion per andare a trascorrere una pasquetta al mare in comitiva. Avventura già felicemente collaudata dal 1946 in poi quando mio padre, riempiva il suo camion di figli, nipoti e parenti vari per portarci a trascorrere la" scucuzza", pasquetta, sul lago di Sabaudia.
L'ultimo viaggio che ricordo risale al 1959 quando con gli amici decidemmo di partire con il "615", che mio padre usava peril suo lavoro di commerciante di vitelli. Ci toccò faticare non poco per cercare, inutilmente, di cancellare le tracce lasciate da questi animali, ma partimmo ugualmente, con alla guida Piero e Silvana ed il resto della comitiva sistemata nella parte posteriore, tutti tra boccanti di entusiasmo e allegria. Per il modo ed il tempo in cui si svolse, questo fu un viaggio altrettanto indimenticabile.
Dopo di allora arrivò ilboom dell'automobile che ci fece tutti più sofisticati, pronti ad inseguire il cambiamento e sognando ad occhi aperti di possedere una 600 Fiat.
Se il 1960 significò l'anno del cambiamento, migliorando svariati settori della vita, gli anni Cinquanta. invece furono anni bui, caratterizzati da un'arretratezza diffusa, con livelli culturali scadenti e scarse possibilità economiche.
L'industria era inesistente, mentre l'economia si reggeva sull'agricoltura e su alcune figure artigianali quali quelle di stagnino, fabbro, falegname, sarto, calzolaio, ecc.
Ciò che contribuiva a migliorare le condizioni di vita di una famiglia, alla fine degli anni Quaranta, erano l'arrivo di rimesse finanziarie e di pacchi da parte degli emigrati in America. Il fenomeno della migrazione nelle Americhe, cominciato all'inizio del secolo, raggiunse in questi anni punte elevate.
Il taxi che Nestore Luzi aveva comperato nell'estate del 1947, ininterrottamente, trasportava gli emigranti ed i loro familiarida Giuliano al porto di Napoli. Era omologato per nove persone, ma Nestore riusciva a trasportarne anche quindici. Ciò era possibile perchè ibagagli erano talmentepochichel'unica valìgiadicartone,accuratamente sigillata con spago, poteva essere tranquillamente tenuta sulle ginocchia.
L'altro fenomeno che incise positivamente sul tessuto economico cittadino fu l'immissione nel pubblico impiego, di bidelli, uscieri e impiegati ad'opera di parlamentari e ministri in carica.
In generale, però le condizioni del paese rimanevano precarie ed anche le famiglie benestanti non erano solite scialare; scampati alla guerra, avendo patito fame e stenti, era naturale che fossero molto parsimoniose. Alimenti e vestiario scarseggiavano e su tutto si faceva economia. Il piccolo armadio, unico per tutta la famiglia, era pressochè vuoto. Giornalmente indossavamo indu
menti smessi dalle sorelle maggiori, consumati e più volte riciclati e riadattati. Il vestito cosiddetto della domenica invece, veNIva confezionato in casa in taglia abbondante e gelosamente custodito per essere indossato solo nelle speciali occasioni.
Fino a 18anni le giovani portavano i calzini, mentre le calze di nylon, un lusso che pochissime ragazze potevano permettersi, quando si smagliavano venivano portate ad aggiustare dalla rammendatrice, poichè non si conosceva ancora l' "usa e getta" Infine, la famiglia che possedeva un cappotto non se ne disfaceva facilmente: esso, rivoltato più volte, passava di padre in figlio e da parente a parente.
Il paese non offriva, specie per i giovani, opportunità di lavoro e quando si riusciva a trovare qualche saltuaria occupazione, il salario era insufficiente e qualche volta veniva corrisposto in natura.
La poca liquidità di denaro rendeva tutto più difficoltoso, determinando uno scarso sviluppo dell'economia che rimaneva ancorata a vecchi sistemi.
Anche le condizioni di vita risultavano poco confortevoli. .
In paese esistevano 746 abitazioni, 705 erano dotate di cucina ma nessuna era provvista di bagno e di acqua. La sìtuazione igienico-
6 della mattina successiva. Era la cosiddetta "corrente a forfait", capace di alimentare solo una lampadina per abitazione. I vicoli erano sprovvisti di illuminazione e solo negli incroci era stato collocato un fioco punto luce. Molte famiglie, centotredici, vivevano nell'indigenza più assoluta essendo sprovviste di acqua, latrina ed elettricità.
Nel 1954 finalmente arriverà in paese l'acqua dell'acquedotto di Capofiume ma ci vorranno ancora diversi anni per averla nelle abitazioni.
I Giulianesi otterranno tuttavia un grande servizio quando in ogni piazzetta e nei crocevia del paese verranno collocate le fontanelle con acqua potabile.
Fino ad allora la mancanza di questo fondamentale elemento aveva rappresentato un gravissimo problema per la popolazione, specialmente in estate, quando la maggior parte dei 134 pozzi di acqua, presenti nel territorio ed il fontanile pubblico, situato in località "la Fontana", si prosciugavano.
L'acqua del fontanile, proveniente dalle sorgenti poste alle falde del Siserno, che sgorgava da due grandi bocche situate nel corpo centrale della costruzione, era utilizzata non solo per il consumo domestico giornaliero, ma anche per lavare il bucato ed abbeverare il bestiame.
Una prima grande vasca, infatti, veniva adibita ad abbeveratoio e da un tubo di ghisa, comunemente chiam to "frocione", usciva un consistente getto di acqua. La vasca attigua serviva per risciacquare il bucato e, come la precedente, aveva ilmuretto di contenimento con il bordo tondo. Le altre due, situate più in basso, servivano per lavare il bucato con il sapone. Il bordo del muretto era formato da larghe e piatte pietre bianche sulle quali il bucato insaponato, veniva più volte battuto.
Alle donne che di professione facevano le lavandaie venivano riservate le pietre più ruvide, perchè su queste i panni si pulivano più in fretta e meglio.
L'acqua delle vasche veniva cambiata una volta a settimana e spesso era coperta da uno strato di sudiciume, poichè tutto il paese si riversava a lavare in questo fontanile.
Non si conosceva ancora la candeggina e per sbiancare si ricorreva alla "colata", procedimento alquanto laborioso, ma efficace. I panni venivano lavati prima con il sapone, poi arricciandoli, venivano deposti uno sull'altro in una cesta di vimini. A parte si prendeva della cenere e si faceva bollire nell'acqua. Arrivata al bollore, si versava il tutto sul bucato e si lasciava riposare per alcune ore, quindi si toglievano i panni dalla cesta e si sciacquavano abbondantemente. Il risultato era sorprendente, il bucato sapeva di fresco e di pulito.
A ridosso del fontanile vi era un bel pioppeto che offriva una gradevolissima frescura e veniva chiamato "Il giardino dell'Impero". Le grandi siepi che lo costeggiavano ed il verde prato adiacente, servivano per stendervi sopra il bucato. Nella calda stagione lo spettacolo multicolore dei panni stesi si ripresentava giornalmente e le donne sedute a chiacchierare ed a spettegolare all'ombra dei pioppi, aspettavano che questi si asciugassero per riportarli a casa, accuratamente piegati e pronti per essere di nuovo usati.
Quando dal fontanile non usciva più acqua si ricorreva ad altre fonti, situate però, lontano dal paese (la Tanna, Chivero,la fontana del Prete, Pietralata, ecc.).
Chi non ricorda le lunghe code fatte per rifornirsi di poca acqua potabile che arrivava in paese con la sempre efficiente "34" di Gigetto sulla quale venivano sistemate otto botti da mille litri ciascuna?
L'altra risorsa per procurarsi acqua potabile, consisteva nel doversi accontentare di un sottile filo che scorreva alla "Scaricatora" dove s'impiegava una eternità per riempire un "concone".
Bisognava alzarsi il mattino di buon'ora e con il "concone" sotto il braccio mettersi in fila ed aspettare il proprio turno. Non di rado accadevano aspri litigi tra donne per futili motivi che la stanchezza ingigantiva. Quando finalmente il "concone" era colmo di acqua, la donna lo caricava sul capo e tornava a casa per depositarlo nell'angolo più fresco. In questo modo la famiglia aveva assicurato il fabbisogno giornaliero di acqua che tutti consumavano servendosi del "suregli", mestolo di rame sempre appeso al manico del "concone".
L'acqua era considerata talmente preziosa, che non ne veniva sprecata nemmeno una goccia. Se infatti nel bere, una piccolissima quantità rimaneva nel mestolo, essa non veniva gettata via, ma rimessa nel "concone".
Questi due recipienti di rame, ritenuti indispensabili in ogni famiglia, sparirono in seguito all'allaccio dell'acqua in casa. La maggior parte dei Giulianesi si disfece subito del "concone". Chissà, forse per il timore che la sua presenza in casa, potesse in qualche modo impedire la rimozione delle numerose fatiche sofferte. Gli scaltri compratori di conche, i "cinciari", che girovagavano di paese in paese e di casa in casa, abbindolavano le donne barattando un "concone" con una dozzinale ed appariscente bambola che veniva ostentatamente esposta sul letto matrimoniale.
La figura del "cinciaro" oggi completamente scomparsa, era ritenuta indispensabile alla comunità paesana. Egli raccattava, barattando, ogni genere di merce: dagli stracci, al ferro vecchio, al rame ecc. Le trattative erano lunghe e piuttosto complesse. La merce veniva scrupolosamente analizzata e divisa, per procedere infine con l'offerta che non era espressa mai in denaro contante ma con altra merce come bicchieri, piatti, tazze, aghi, nastri ecc., che il "cinciaro" portava sempre con sè.
Ma il problema della carenza di acqua interessava anche i 935 residenti delle campagne, i quali dovevano far fronte ed altre complicazioni, come la mancanza della corrente elettrica, l'estrema inadeguatezza delle loro abitazioni e dei loro attrezzi di lavoro.
Alcune famiglie abitavano ancora nei pagliai e conducevano una vita grama e primitiva, altre usufruivano di una sistemazione relativamente più idonea, vivendo in piccole casette in muratura. Chi invece non possedeva nemmeno un riparo sul terreno, ogni sera riportava in paese la mucca e l'asino che venivano alloggiati nelle stalle situate al pian terreno di alcune abitazioni del centro del paese.
Oggi il panorama delle campagne si è fortemente modificato, a causa dei numerosi campi incolti e della presenza di belle, confortevoli e moderne costruzioni.
Nelle campagne degli anni Cinquanta, invece, predominavano i terreni coltivati, con ampie zone di uliveti e vigneti. La coltivazione dell'ulivo ad es., era tanto estesa da richiedere in paese l'esistenza di sei frantoi. Anche la vite era presente in ogni proprietà, ma i metodi di colti vazione erano totalmente diversi da quelli di oggi. Era diffusa, infatti, la vite ad albero, disposta a filari, impiantati nel seminativo. Ilraccolto tendeva più alla quantità che alla qualità del prodotto.
Tra il verde dei prati e degli alberi, ogni tanto, un pò dovunque, sorgevano piccole casette in muratura aventi tutte la stessa tecnica architettonica. Ancora ogògi ,dove, non è stata operata la demolizione è possibile individuarle.
Esse nella loro essenzialità, assolvevano ad una duplice funzione: dar riparo agli animali ed all'uomo. Nel piano terreno, infatti, veniva collocata la stalla per gli animali domestici, mucche e asino, e spesso accanto a questa veniva costruito il forno per cuocere il pane.
Questo tipo di costruzione permetteva, in inverno, di stemperare il freddo incalzante nell'abitazione del contadino che era situata al primo piano, dove si accedeva mediante una scala esterna.
Una grande ed unica stanza era sufficiente per una intera famiglia.
In un lato un camino con accanto dei fornelli per cucinare, in un altro i letti per dormire.
L'arredo, molto spoglio ed essenziale, veniva completato da una madia dove riporre pane, cibo e utensili da cucina. Spesso la stanza comunicava direttamente con la stalla mediante una stretta botola ed una scala a pioli. In questo modo il contadino poteva controllare in ogni momento il proprio bestiame.
Non mi rimane difficile ricordare tanti piccoli particolari poiché la casetta di mio nonno, uguale a tante altre, è ancora lì, alle "Fossatelle". Purtroppo è disabitata e spoglia, ma ogni qualvolta vado ad aprire la porta mezza sgangherata, trovo la stanza sempre più affollata di cose, di personaggi, di atmosfere di altri tempi.
E' come entrare in una realtà virtuale, e la mia mente, ricevuto l'input giusto, dato dalla porta che si apre, inizia a sciorinare ricordi. Riassaporo così le piacevoli sensazioni provate quando,con le mie sorelle, rimanevamo nella casetta con i nonni. Ad esempio, il calore, non tanto fisico, quanto umano che effondeva quell'enorme lettone che la sera ci avvolgeva tutti insieme, oppure il piacere e l'ilarità che si sprigionavano in noi bambine quando saltavamo e ci rigiravamo su quel rumoroso materasso di "scartocci", e la pacata serenità di mia nonna disposta sempre a tutto pur di accontentarci.
Il mattino, invece, appena sveglie ci aspettava un tipo di colazione ormai estinto: mio nonno appariva dalla botola con in mano un secchiello di latte appena munto e noi ci attaccavamo direttamente ai bordi ed avidamente mandavamo giù questa delizia calda e piena di schiuma.
Ed ancora, come non ricordare l'effetto che mi provocava il temporale estivo? Rimanevo in sìlenzio, rannicchiata sul letto o su una sedia ad ascoltare il ticchet tio della pioggia che batteva sulle tegole del tetto.
Era come ascoltare una bellissima sinfonia e lasciarsi cullare da quella varietà di note, fino a quando un piacevole torpore avvolgeva la mia mente ed il mio corpo.
Quando richiudo la porta della casetta i ricordi s'interrompono, ma il ritorno al presente è altrettanto piacevole perchè nell'ambiente in cui mi trovo, a contatto con la natura, mi sento veramente a mio agio, circondata da elementi familiari che sento come una seconda pelle.
Tra le innumerevoli difficoltà che il contadino doveva affrontare durante tutta la sua esistenza, le più dure e logoranti erano senza dubbio quelle riguardanti il lavoro dei campi, che veniva svolto manualmente, con pochi attrezzi primitivi. Chi possedeva un asino o una coppia di buoi si riteneva fortunato, perchè questi rappresentavano un prezioso aiuto.
La famiglia del contadino, quasi sempre numerosa, contribuiva tutta a lavorare la terra, perchè lo scopo, primario consisteva nel cercare di ricavare da questa, quanto possibile per soddisfare il fabbisogno familiare.
La terra veniva coltivata alla vecchia maniera, empiricamente. Non si pensava a colture più razionali, si praticava, insomma, un'agricoltura tradizionale. Permaneva un'arretratezza diffusa e le nuove tecniche agrarie rimanevano un sogno, soprattutto perchè la poca disponibilità economica non consentiva l'acquistodinuovi attrezzi, nè semi selezionati o concime chimico.
Non avendo, quindi, altro a disposizione se non la propria forza, il proprio vigore fisico, il contadino usava e sfruttava queste doti fino allo sfinimento. Si lavorava dall'alba al tramonto, e quando il cattivo tempo non permetteva di lavorare all'aperto, si rimaneva in casa a costruire o riparare attrezzi.
In queste circostanze, alla donna non rimaneva altro che "sopportare" l'umore nero del proprio uomo che, costretto a restare dentro, si comportava come un animale in gabbia e continuamente apriva l'uscio di casa per scrutare il cielo, sperando che la pioggia cessasse.
Nessuno poteva permettersi illusso di essere esonerato dal lavoro. Non esisteva distinzione nè di età nè di sesso. Le responsabilità erano condivise da tutti quanti fin dalla più tenera età. Si cominciava, infatti, da bambini svolgendo piccole mansioni come esempio il portare al pascolo le mucche o qualche pecora. In seguito, col crescere, i lavori divenivano sempre più faticosi.
Nell'organizzazione del lavoro, nemmeno le perso ne anziane venivano risparmiate. Esse continuavano a dare il loro contributo di fatica, fino al termine dei loro giorni. Le donne erano le più sfruttate dalle circostanze, lavorando incessantemente in casa e fuori. Non solo accudivano la casa ed allevavano i figli, ma nell'ambito domestico producevano beni di consumo alimentare, come pasta, pane, formaggi e di vestiario, come calze, maglie, vestiti ecc.
Quando infine nella campagna servivano altre braccia, la donna veniva impiegata nei campi al pari dell 'uomo.
Oltre alla normale rotazione delle colture, su di un, terreno non venivano praticate altre tecniche di sfrutta mento, nè si pensava a razionalizzare il lavoro. Di conseguenza si otteneva un raccolto alquanto scarso. La produzione tendeva verso l'auto consumo ed il contadino sfruttava il terreno coltivando prevalentemente grano e granturco.
Tutto il lungo cammino che il frumento doveva compiere per essere trasformato in pane, veniva accuratamente seguito e controllato con estrema meticolosità, senza risparmio di fatiche, rispettando una ritualità che sapeva di sacro.
Ed è per la solennità di alcuni atti e per le particolari sensazioni che mi sono state comunicate da bambina che i ricordi scorrono piacevoli. A volte è sufficiente una parola, una vaga descrizione, e il pensiero ritorna alle radici.
Grano: vocabolo magico che mi riporta indietro negli anni, percorrendo a ritroso un cammino interiore fatto di riflessioni ed emozioni.
Con una lucidità sorprendente mi scopro a ricordare periodi della mia infanzia trascorsi a stretto contatto con la vita semplice e dura del contadino, tanto da averne assorbito alcuni umori ed esperienze, nonchè l'amore per la terra e quel non so che di arcano e magico che la natura riesce a trasmettere.
Ricordi che risalgono al tempo della fanciullezza, quando trascorrevo l'estate in campagna dai nonni materni.
Di buon mattino mia madre mi accompagnava per un tratto, poi, da sola, saltellando per lo stretto viottolo, arrivavo in un baleno alle "Fossatelle". Qui trovavo mia sorella che in questa stagione, spesso rimaneva a dormire con i nonni.
Con Mimma giocavamo con piccole ed insignificanti cose che la nostra fervida fantasia riusciva di continuo ad animare. In particolare, ricordo che eravamo attratte da piccoli e colorati pezzetti di ceramica e porcellana che ci affannavamo a ricercare tra i sassi e la terra. Per noi rappresentavano dei veri e propri tesori quando, giocando alle signore, li trasformavamo in piatti, bicchieri, tazzine di caffè, ecc .. E pensare che qualche anno prima questi frammenti erano stati veramente dei raffinati servizi!
Mia nonna, infatti, ci raccontava, con velata malinconia, che durante la guerra, alcuni uomini "brutti e cattivi", avevano gettato dalla finestra di casa le casse di legno in cui erano stati accuratamente riposti i regali di nozze di mia madre.
Nella caduta tutto era andato in frantumi e noi non facevamo altro che ricomporre, con la fantasia, i piccoli pezzi trasformando li di nuovo in bellissimi servizi.
Oltre a giocare, spesso seguivamo passo passo nonna Vittoria, zia Velia o Angelina, mentre sbrigavano i lavori per la campagna.
Ricordo la mietitura, la scartocciata, la vendemmia, ed altro ancora come la colata, l'essiccazione della conserva e dei fichi secchi ecc. Ricordi che evocano immagini piene di calore, di serenità e di una incessante operosità. Non era permesso fermarsi, perchè ogni stagione aveva la proprie scadenze fisse e non procrastinabili. Questo continuo movimento potrebbe indurre a pensare che la vita si svolgesse in un convulso frastuono; al contrario, la vita dei campi era fatta di lunghi silenzi rotti solo dal vocio degli uomini e dai molti suoni della natura.
Ciò che, al di sopra di tutto, impegnava il contadino sia dal punto di vista fisico che psicologico, era la coltivazione del grano che interessava diversi mesi dell'anno.
Si cominciava, infatti, a preparare ilterreno fin dalla fine diagosto, dissodandoloconl'aratrotrainato da "vacche nostrane", particolari mucche forti, abituate a lavorare nei campi.
L'aratro era un attrezzo di legno costruito dal contadino stesso, con la punta, il "vomaro", in ferro.
Ai lati del corpo dell'aratro c'erano due ali le "recchie,"che permettevano alla terra rimossa di depositarsi lateralmente, formando, così, il solco.
All'estremità c'era un'impugnatura la "manocchia" che serviva a controllare l'aratro. Dalla parte inferiore della "manocchia" partiva un'asta lunga, il "Neruo", sulla quale, circa alla metà, s'inseriva un perno, l' "Ura", che infilandosi sotto il corpo dell'aratro ne facilitava il lavoro, allorquando s'incontravano degli avvallamenti nel terre no. Il "neruo" andava ad inserirsi nello "iumo". Quest'ultimo, sempre in legno, era simile ad un collare cheveniva posto sul collo dei buoi e agganciato con un gioco di funi. Un paio di briglie venivano passate dietro ed impugnate dal contadino che si trovava, così ad avere davanti a sè i buoi, che controllava impugnando con una mano le briglie e con l'altra la "manocchia" dell'aratro.
Arare non era cert oun lavoro semplice: accorrevano forza, precisione e coordinazione di movimenti.
II terreno veniva solcato più volte per renderlo più soffice e friabile. La giornata lavorativa iniziava molto presto e terminava al calar del sole. a sosta per il pranzo era breve e veniva consumata sul terreno dove si stava lavorando. Due pezzi di pane con del formaggio o della verdura, rappresentavano il "lauto" pasto. Ipiù fortunati bevevano un bicchiere di vino.
Terminata l'aratura, si procedeva a ripulire il suolo dai sassi che venivano trasportati con le ceste ai margini del terreno e ammucchiati, per essere in seguito usati per costruire le "macere". Queste erano dei muretti di pietre sovrapposte, senza malta, che servivano per segnare il confine o per operare terrazzamenti nei terreni scoscesi.
Verso la fine .di ottobre, il contadino iniziava a seminare il grano.
Come non ricordare mio nonno nell'atto della semina lassù, nel campo arato, vicino alla grande quercia, con a tracollo una "saccuccia" colma di frumento e con il braccio proteso in avanti, nell'atto di spandere sulla terra i chicchi di grano!
Con il suo aspetto imponente e dignitoso, con lo sguardo fiero e con i capelli scompigliati dal vento, sembrava rappresentare uno splendido quadro idilliaco pastorale.
Ogni qual volta mi capita di ammirare dipinti di macchiaioli in cui si riproducono scene rurali, il mio pensiero corre a mio nonno, perchè spontaneamente li accomuno alle immagini tante volte osservate da bambina.
Terminata la semina, si ripassava con l'aratro per ricoprire con la terra i chicchi di grano. E nulla veniva sprecato: se infatti, ci si accorgeva di qualche chicco rimasto scoperto, si procedeva manualmente ad interrarlo.
A novembre, cominciavano a spuntare le prime piantine e la stagione fredda ed il gelo non rappresentavano un problema. Icontadini erano più spaventati dalle piogge insistenti e dalla grandine che dalla neve. Infatti erano soliti ripetere il detto: "sotto la neve pane, sotto l'acqua fame".
Non si conoscevano bollettini metereologici nè regole affermate scientificamente. Ilcontadino governava il suo mondo seguendo consuetudini basate sull'empirismo e su usanze popolari consolidate nel tempo: un insieme di superstizione, magia e credenze religiose.
Infatti, ogni situazione veniva fronteggiata mediante atti e riti che sapevano di sacro e profano.
Per capire l'andamento del tempo, il contadino scrutava il cielo in direzione di monte Cacume; prima d'intraprendere una qualsiasi azione, teneva in considerazione il ciclo lunare. Solo quando la luna era "buona" si poteva iniziarea seminare, raccogliere, travasare, essiccare ecc. La consuetudine che gli influssi lunari fossero tanto propizi, era talmente radicata che nessun contadino osava andare contro una così forte tradizione.
Per fronteggiare la violenza dei temporali estivi, venivano fatte suonare le campane della Chiesa, e chi ritornando dal santuario della SS. Trinità, si era riportato il bastone, in queste circostanze lo metteva fuori della porta o finestra per scongiurare, nella propria abitazione, l'impeto temporalesco.
Quando tra le campagne di Giuliano incalzava la siccità, i contadini si rivolgevano al Sacro Cuore, e, per propiziare la pioggia su tutto il territorio, portavano in processione la statua fino ai confini con i paesi limitrofi.
La comunità rurale era molto rispettosa di S. Antonio Abate, patrono degli animali. Il 17 gennaio, infatti, la piazza antistante la Parrocchia di Santa Maria Maggiore si riempiva di animali: mucche, asini, muli, capre, pecore ecc .. Al termine della messa il parroco usciva sul sagrato della chiesa per benedire gli animali ed i contadini, terminato il rito, tornavano al lavoro nei campi più soddisfatti e rassicurati.
Il 25 maggio, in occasione dell'Annunziata, accorrevano numerosi alla messa che si celebrava nella piccola chiesa, oggi non più esistente. Questa sacra ricorrenza era ritenuta propiziatrice di tutte quelle attività che venivano intraprese all'inizio della primavera, particolarmente per la riuscita degli innesti e la semina dei legumi.
A queste credenze religiose si affiancavano molte altre di natura superstiziosa che tendevano a limitare alcune azioni o colture, favorendone altre. Nelle campagne di Giuliano, ad esempio, vi era una scarsa presenza di piante di noci, sicuramente dovuta alla convinzione radicata tra icontadini, secondo la quale chi metteva a dimora una di queste piante avrebbe avuto una brevissima esistenza.
Per trarre gli auspici, invece, si aspettava la notte dell'Ascenzione. In questa occasione si metteva fuori dalla finestra alla "serena", una bottiglia con dell'acqua ed una chiara d'uovo. Il mattino seguente, a seconda della forma che l'intruglio aveva assunto, venivano interpretati i presagi.
Ma torniamo a parlare del grano che, in aprile aveva bisogno di ulteriori cure. Con l'avanzare della primavera, infatti, si ripassava con l'aratro in mezzo ai solchi, la "solocatura", per estirpare l'erba "cattiva" che lasciata crescere avrebbe soffocato le giovani piantine di grano.
A maggio, quando cominciavano a spuntare le spighe, si procedeva con la "munnatura", che veniva fatta manualmente e solo dalle donne, spesso prese a giornata. Il lavoro che le donne facevano per "munnare" era molto faticoso, perchè si rimaneva tutto il giorno con il dorso curvo ad estirpare la gramigna, pianta infestante che non permetteva al grano di crescere rigoglioso. Per reagire alla stanchezza che con il passare delle ore diventava sempre più insopportabile, le donne intonavano canti e le loro voci riecheggiavano nella valle fino a confondersi con quelle di altri gruppi che lavoravano in altri terreni lontani.
Al tramonto, finito di "munnare" e molto stanche, prima di tornare a casa, dovevano raccogliere tutta l'erba estirpata, confezionare dei grandi fasci, le "matte", e caricarseli sul capo per portarli al bestiame.
Giugno era il mese in cui la natura esplodeva in una fantasmagoria di colori, di profumi, di suoni e niente appariva più suggestivo di un campo di grano mosso dal vento, con una miriade di spighe dorate, intervallate da intense macchie di colore rosso per la presenza di papaveri.
Ed in mezzo a questi meravigliosi campi pieni di colore e di abbondanza, come non ricordarsi del mitico spaventapasseri fatto con paglia e con vecchi e sbrindellati indumenti, messo in bella mostra allo scopo di allontanare gli uccelli!
Le riflessioni di oggi mi portano a credere che in quegli anni non si faceva caso alle straordinarie bellezze che la natura ci offriva. Tutto era considerato normale e naturale. Chi lavorava la terra, chi viveva in campagna, non aveva il tempo nè la fantasia per lasciarsi andare a considerazioni poetiche.
Penso che nemmeno mio nonno, ritenuto un uomo istruito e "intellettuale" perchè amava leggere molto, si lasciasse distrarre da divagazioni del genere.Come ogni contadino, guardava al lato concreto, alla sostanza delle cose. Le spighe di grano rappresentavano il pane per sè e per la propria famiglia. Questo contava e solo per questo si provava soddisfazione.
Per quanto mi riguarda, credo di aver vissuto quegli anni in un piacevole bianco e nero. I colori, le sfumature, la poesia li' aggiungo oggi, quando ricordo. Mi accorgo, infatti, che non sono icolori, ma piuttosto particolari odori o sapori che mi riportano indietro nel tempo risvegliandomi piacevoli sensazioni.
L'inconfondibile odore di un roseto ad es. mi riporta al maggio della mia fanciullezza, quando tutta la campagna s'impregnava di questo delicato profumo e rivedo schiere di donne con in braccio fasci di rose che nelle leggere e frizzanti mattinate primaverili, passavano davanti casa mia per recarsi al mese Mariano, presso il Santuario della Madonna della Speranza e subito dopo al cimitero per deporre i fiori sulla tomba dei loro cari.
Col sopraggiungere dell'estate, quando le giornate si facevano afose ed il frinire monotono delle prime cicale si moltiplicava nell'aria e infieriva negli orecchi, era giunto il tempo della mietitura che si svolgeva in un clima di festosa allegria e di piena soddisfazione,specialmente quando ilraccolto si preannunciava abbondante. Questo periodo veniva vissuto intensamente da tutta la famiglia ed ognuno doveva dare il proprio contributo, anche se minimo.
Come la vita di uno sciame di api si regge sull'aiuto reciproco e sul lavoro di ogni suo componente, allo stesso modo si comportava, in alcune occasioni speciali, la comunità rurale. E la mietitura era una di queste.
Avveniva, allora, che nessuno si sottraeva ai propri compiti ed anche ai bambini venivano assegnate piccole mansioni, svolte con molto orgoglio. A sette anni anch'io contribuivo portando l'acqua fresca di pozzo ai mietitori.
L'unico momento di calma e di riposo in questo continuo fervore, era rappresentato dal pranzo che tutti insieme consumavamo sul campo.
Alle "Fossatelle", ci si riuniva tutti all'ombra di una grande quercia che rappresentava un vero paradiso, dopo aver trascorso l'intera mattinata sotto i cocenti raggi del sole. Quando dal campo di grano vedevamo Angelina uscire dalla casetta con "gli canistro" sul capo, era giunto il momento di interrompere il lavoro: il tempo di posare a terra gli atirezzi e si era pronti per il pranzo. Angelina, nel frattempo, arrivata sul posto, stendeva una candida tovaglia sull'erba e quando tutti avevano trovato posto, cominciava a servire il pasto sotto l'occhio attento e compiaciuto di nonna Vittoria.
Nel ricordare questi avvenimenti mi piace immaginare Angelina come un prestigiatore nell'atto di tirare fuori dal suo cilindro oggetti fantastici; allo stesso modo ricordo questa buonissima donna, che tutti noi affettuosamente consideravamo di famiglia, mentre tirava fuori dalla cesta ogni ben di Dio.
Angelina faceva parte di quella schiera di donne non maritate, che in quegli anni, spontaneamente, si affiancavano nel lavoro domestico di altre donne sposate e appartenenti a famiglie benestanti. Esse vivevano nella casa che le aveva accolte, sbrigando le faccende, lavando il bucato ed aiutando ad allevare i bambini. In cambio ricevevano vitto, alloggio, e tanto affetto, diventando, spesso, parte integrante della famiglia che le ospitava.
Il pranzo, sotto la grande quercia, si consumava con molto appetito, si beveva un bicchiere di vino e, con lo stomaco pieno, l'allegria nasceva spontanea.
Si ricominciava così a mietere fino al tramonto, sopportando il peso di una giornata trascorsa a lavorare sotto il sole di luglio.
Quando un contadino non riusciva a produrre dal suo piccolo appezzamento di terreno il necessario per la sua famiglia, era costretto ad andare a giornata ed in questo periodo dell'anno il lavoro quotidiano del bracciante consisteva nel mietere, giorno dopo giorno, campi e campi di grano.
Ogni mattina si alzava quando ilsole non era ancora spuntato, e portandosi dietro ilproprio attrezzo di lavoro, la "falcetta" ed un misero pasto, che avvolgeva in un grande fazzoletto, si dirigeva sul campo, a volte facendo anche diversi chilometri a piedi. Trascorreva tutto il giorno a mietere e ritornava a casa al tramonto, sfinito dalla stanchezza, ma con ancora quel poco di forza occor rente per accudire ai lavori del proprio campo.
La mietitura veniva effettuata con una singolare tecnica. Più uomini muniti di falcetta iniziavano a mietere da uno stesso lato del campo e procedevano in avanti, affiancati. Le spighe venivano recise nella parte bassa del gambo e man mano si formavano dei fascetti, le "renghe" che, legati con una spiga, venivano posati a terra. Si procedeva in questo modo per tutto il campo e poi si ritornava daccapo per raccogliere i fascetti e comporre fasci più grandi, i "regni" che riuniti a gruppi di quattro o sei covoni venivano lasciati per qualche giorno sul campo e successivamente portati sull'aia, dove venivano disposti secondo forme prestabilite. Se la disposizione assumeva la forma di una casa, si aveva la "casarcia", se invece i fasci venivano semplicemente sovrapposti in modo simmetrico, si avevano le "caselle". In ambedue le forme l'importante era disporre le spighe di grano in modo che un eventuale pioggia scorresse sopra di loro e non vi penetrasse, altrimenti l'umidità avrebbe pregiudicato il raccolto.
Terminata la mietitura e liberato il campo dal grano, rimanevano le stoppie e prima di mandarvi le mucche a pascolare si procedeva con la spigolatura, che non sempre veniva fatta dal proprietario. Mia nonna, ad esempio" permetteva che alcune donne più bisognose del paese passassero tra le stoppie a raccogliere le spighe rimaste sul terreno per racimolare qualche piccolo fascetta. Di ritor no alle proprie case, queste donne sbriciolavano a mano le spighe e pestando i chicchi nel mortaio ottenevano una grezza farina che usavano per improvvisare una pizza per la propria famiglia.
Prima del secondo conflitto mondiale, per liberare il chicco di grano dalla spiga, si usava ancora ilmetodo della battitura che avveniva servendosi dell'aiuto di cinque cavalli, che per l'occorrenza venivano presi in prestito. I fasci di grano venivano adagiati sul fondo dell'aia ed i cavalli, tenuti insieme da una lunga fune, il "capezzane", venivano fatti girare simultaneamente in orizzontale sui fasci di frumento calpestandoli fino a quando i chicchi di grano non venivano liberati dall'involucro. Questo era il , metodo per dividere la paglia dal grano.
La paglia veniva ammucchiata attorno ad un alto palo conficcato nel terreno. Il contadino, munito di una forcina di legno, si metteva al centro, accanto al palo, e ammassava man mano attorno e sotto di sè la paglia che gli veniva passata da altri uomini. Quando il"pagliariccio" aveva raggiunto un'altezza considerevole, il contadino terminava il lavoro con una copertura conica e, buttando con soddisfazione il suo cappello in aria, scivolava lungo la superficie e ritornava a terra.
Il grano, che nella battitura si era depositato sul fondo dell'aia, non era completamente pulito, Nell'ammucchiarlo in un angolo, veniva preso con la pala e alzato in aria controvento, cosicchè, nella ricaduta, il chicco si separava dalla pula. Un'ulteriore pulitura veniva fatta dalle donne che, prima di riporlo nei sacchi, lo passavano nel setaccio, "conciaregli".
L'usanza della battitura del grano venne smessa quando anche a Giuliano arrivò la prima trebbiatrice. Fu mio padre che, frequentando le fertili campagne dell'agro pontino, si rese conto della grande utilità di questa nuova macchina. Egli, non dotato di una mentalità contadina ma particolarmente attento alle nuove tecnologie agrarie e capace d'intuire i vantaggi che queste potevano offrire, decise di comprare una "Alpina" con l'intenzione di farla girare tra le campagne di Giuliano.
Rispetto a ciò che oggi il mercato moderno offre in fatto di sofisticate tecnologie, la trebbiatrice di allora rappresentava un esemplare molto rozzo e primitivo. Non essendo ancora fornita di ruote, doveva essere trasportata a spalla da quattro uomini, mediante quattro aste che la sostenevano, allo stesso modo di come si porta in proces sione una statua. Se la trebbiatrice rappresentò una grande conquista per il contadino, riducendo gli ulteriori fatiche, non lo fu altrettanto per quei poveri braccianti che ogni mattina erano addetti a caricarsela sulle spalle per traspor tarla di campo in campo, tra mille difficoltà e sentieri proibitivi.
Si trattava di un'infernale macchina che teneva impegnate attorno a sè molte braccia ed era talmente rumorosa che non era necessario avvisare il contadino del giorno in cui gli sarebbe toccato trebbiare il grano. Egli infatti, riusciva a dedurre il suo turno dalla vicinanza o lontananza del frastuono.
Anche la fase della trebbiatura veniva vissuta in un clima di animazione generale. Ogni persona che si muoveva attorno alla macchina aveva il suo da fare e tutti lavoravano all'unisono, come in una catena di montaggio.
Quando illavoro era ultimato ed i numerosi sacchi di grano giacevano riuniti in un angolo dell'aia, fra tutti si sprigionava un'aria di complice soddisfazione. Succede va allora che qualcuno iniziava a suonare l'armonica a bocca o l'organetto e tra uno stornello ed un bicchiere di vino s'improvvisava sull'aia un'allegra festa del raccolto, dimenticando per qualche ora, le sofferenze quotidiane.
Nei giorni seguenti si provvedeva a portare il grano nel granaio ed ogni volta che in famiglia si aveva bisogno di farina, una modica quantità di grano veniva prelevata e portata al mulino per essere macinata.
A Giuliano esisteva solo il mulino dei Sarandrea ed era situato proprio alla curva la "mola". Anche se, all'epoca, era considerato moderno, i suoi ingranaggi erano molto rumorosi e bisognava collaborare manual mente nelle diverse fasi, prima di ottenere la farina.
In quegli anni le donne usavano vestire con colori piuttosto scuri ed era augurabile non incontrarle al ritorno dal mulino a causa dell'aspetto spettrale che avevano assunto per la farina che si era appiccicata loro dappertutto.
Con la farina ottenuta si faceva il pane o la pasta.
Anche se le abitudini alimentari lentamente cominciavano a modificarsi, il pane rimaneva un prodotto indispensabile e per alcuni rappresentava ancora l'unico alimento. Non di rado capitava che una salsiccia cotta sulla brace, spremuta e rispremuta in una pagnotta di pane tagliata trasversalmente, rappresentasse l'unico companatico per sfamare un'intera famiglia.
Fortunatamente, queste esperienze di estremo bisogno, non le ho vissute direttamente, comunque conservo il culto per il pane.
E' un'eredità morale che mi porto dietro e che difficilmente riesco a scrollarmi di dosso. Ancora oggi, infatti, se un pezzo di pane mi cade per terra mi precipito a raccoglierlo ed il primo impulso è di baciarlo così, come da bambina vedevo fare nella mia famiglia. La venerazione che tutti provavano per questo bene così prezioso, perchè vitale, derivava anche dall'essere il frutto di un lungo e faticoso cammino al quale tutti avevano partecipato.
Considerato un bene primario ed essenziale, esso in particolari avvenimenti come nelle festività di Sant'Antonio da Padova e San Rocco, assumeva un ruolo più propriamente sacrale. In queste due ricorrenze religiose, molto sentite dai Giulianesi, alcune famiglie s'impegnavano a preparare una certa quantità di pane, comunemente chiamato "Panuncegli". Questo atto veniva considerato un obbligo da chi aveva ricevuto una particolare grazia dal Santo. Il pane veniva benedetto e poi distribuito ai poveri.
Questa antica tradizione si è modificata nel corso degli anni fino a scomparire quasi del tutto ai nostri giorni. Oggi, solo la famiglia Claroni continua l'usanza del "panuncegli". Ogni anno, il sedici di agosto, giorno della festa di San Rocco, Ennia prepara un determinato numero di pagnotte di pane, le fa benedire, e molti abitanti di Giuliano, non più mossi dal bisogno ma dalla fede e dalla devozione per il Santo, si recano a prendere il pane benedetto.
Negli anni Cinquanta la tradizione era ancora forte.
Non si usava più il pane giallo di farina di granturco, ma si distribuivano pezzi di pane di grano. I miei ricordi più vivi si riferiscono agli anni in cui "gli panuncegli" cambiò forma e sapore divenendo sfilatino. Per i bambini di allora avere l'opportunità di assaporare un pane così morbido e bianco rappresentava un'occasione che ad ogni costo bisognava cogliere. Accadeva che frotte di bambini seguivano, accalcandosi con insistenza, le donne che riportavano a casale ceste colme di pane appena benedetto. Essi, per ottenere uno sfilatino, ripetevano con voce petulante la seguente filastrocca che pressapoco diceva: "Dacci gli panuncegli, pu l'anima gli megli, pu l'anima gli morti, fa lo beno a tata nostro".
La preparazione del pane era un compito riservato esclusivamente alle donne. Operazione lunga e pesante che impegnava per molte ore.
Ma quando finalmente la madia si riempiva d icalde pagnotte di pane, tutte le fatiche e le preoccupazioni sparivano e subentrava una sensazione di pacato ottimi. smo, sensazione che derivava dalla consapevolezza di aver assicurato per i propri familiari il cibo per circa dieci giorni.
Le famiglie che abitavano in campagna possedevano quasi tutte un forno che potevano usare con comodità. Chi invece viveva in paese si serviva di numerosi forni privati ma aperti al pubblico e dislocati in tutto ilcentro abitato.
Per ogni pagnotta di pane infornata, si pagavano circa tre lire.
Il forno era collocato in una grande stanza, scarsamente illuminata, priva di finestre e arredata molto spartanamente. In un lato erano sistemate, alla meno peggio, delle tavole che fungevano da muretto sulle quali venivano allineate "le scife" piene di pane; nell'altro lato veniva accatastata qualche fascina e qualche piccolo pezzo di legna. In prossimità della bocca del forno venivano sistemati tutti gli attrezzi specifici che erano: la "Panara" che serviva per infornare e sfornare non solo il pane ma qualsiasi altro alimento; una pertica per "sbraciare", cospargere cioè di brace tutta la base del forno, ed un'altra pertica chiamata "muni" che serviva a pulire meglio il fondo, formata da un fascio di erba odorosa (Enula Viscosa) che a contatto con il caldo dei mattoni emanava un piacevole profumo, e, probabilmente aveva anche una funzione disinfettante. Spesso "gli muni" veniva anche bagnato per raffreddare e pulire meglio la base del forno. Infine, qualche sgabello traballante e un vecchio e rustico tavolo completavano l'arredo.
Un forno, mediamente, aveva una capienza di sessanta pagnotte di pane.
I forni in funzione negli anni Cinquanta nel centro di Giuliano di Roma erano i seguenti:
-
-
-
-
-
-
-
Tutti questi forni lavoravano alacremente dalle quindici alle diciotto ore giornaliere, cominciando dall'alba fino al crepuscolo.
Durante il giorno, per gli angusti vicoli del paesino spesso s'incontravano donne che con ,ila scifa'' in testa si dirigevano al forno per cuocere il pane, oppure ritornava no a casa cariche di pagnotte ancora calde, tanto da lasciare per le strette viuzze la scia del caratteristico ed inconfondibile profumo del pane appena sfamato.
Ma nel 1953 anche questo antico mestiere si avviò verso una inevitabile decadenza: la costruzione, infatti, di un nuovo, più capiente e moderno vapoforno determinò gradualmente la premessa per la chiusura di tutti i forni esistenti nel centro del paese. I segni del progresso cominciarono a farsi sentire anche a Giuliano di Roma: le donne preferirono comprare il pane già pronto perdendo così l'uso di farlo in casa.
La chiusura dei forni, anche se determinò, la scomparsa di una parte importante della vita paesana, un centro di aggregazione sociale, un lavoro fatto con arte ed amore da braccia esclusivamente femminili, liberò la donna da , una fatica secolare.
Questo fenomeno coincise con l'abbandono gradua le delle campagne. Pochi contadini, infatti, rimasero a coltivare il terreno a grano; molti preferirono lasciarlo incoltivato e tutto a pascolo. Era iniziata l'epoca della migrazione temporanea verso Roma. '
La campagna non rappresentava più il sostegno vitale per la famiglia, per molti iniziava ad essere solo luogo di residenza.
Nella descrizione delle varie fasi della lavorazione del pane e dell'organizzazione del lavoro del forno, farò riferimento a personaggi reali, di cui mantengo un ricordo vivo e affettuoso.
Nella gestione di un forno esisteva una gerarchia da rispettare:
-
-
Il forno veniva acceso circa un'ora e mezza prima di infornare. Si preferiva dar fuoco con le fascine d'ulivo e di leccio perchè il loro legno era ritenuto migliore rispetto ad esempio, ai "capiti", potature della vite, che non davano , una brace resistente e non sviluppavano un'adeguata temperatura.
In quegli anni i forni non erano ancora dotati di termostato e la temperatura veniva misurata attraverso metodi empirici, ma ugualmente efficaci e tutt'ora in uso. Quando, infatti, i mattoni che rivestivano l'interno di un forno, cominciavano a sbiancare non si introduceva più legna, perchè la temperatura aveva raggiunto la gradazione necessaria. Si lasciava, quindi, consumare la brace, poi si "sbraciava" con l'apposita pertica ed a questo punto si poteva informare il pane.
Ma vediamo meglio di descri vere, nel miglior modo possibile, quanto avveniva nelle famiglie e nell'attività manuale.
Quando mia madre, che come tutte le altre mamme di allora preparava il pane in casa, si accorgeva che nell' "arcone" erano rimaste solo un paio di pagnotte, si orga'nizzava subito per ricomporre la provvista.
Questa preparazione implicava tempi abbastanza lunghi ed un susseguirsi di atti che si compivano con ritualità e tempismo. Si iniziava con l'avvisare la fomara. La nostra si chiamava Vincenzina: donna dal tipico aspetto ciociaro, prosperosa, portamento fiero e carattere energico. Non credo sapesse leggere, ma non aveva bisogno di carta e penna per annotare le numerose prenotazioni e per fare i conti. Con una prontezza sorprendente e senza possibilità di sbagliare, immediatamente era in grado di comunicare alla cliente ilrispettivo turno.
Mia madre che preferiva quello mattutino, cominciava ad organizzarsi fin dalla sera precedente. Approfittando della quiete che regnava finalmente in casa, perchè noi piccoli eravamo a dormire, cominciava a setacciare a "cernere" la farina con il setaccio "la seta" per dividerla dalla semola. Se voleva ottenere "il fiore", farina più bianca e raffinata, usava "la stamigna" un setaccio con trama più fitta.
Terminata questa prima operazione, procedeva a mettere il lievito. Prendeva gli "scifegli", recipiente di legno lungo 60 cm e largo 40, che si distingueva dalla "sciufulletta" per via dei bordi laterali che erono obbliqui e dentro impastava un pò di farina con acqua tiepida, insieme ad un pugno di pasta indurita e già lievitata lasciata da parte precedentemente.
L'impasto cosi ottenuto veniva coperto con la "mantella" e lasciato lievitare tutta la notte in un angolo caldo della cucina, riparato dalle correnti d'aria.
"La mantella" era un tipico panno di lana a righe orizzontali che veniva usato esclusivamente per coprire il pane. Era tessuta a mano nei vecchi e rudimentali telai che usavano le nostre nonne.
La tonalità ricorrente delle righe andava dal marrone al beige, ma non mancavano colori più vivaci che, intervallati tradi loro, rendevano la mantella più variopinta e preziosa, diventando così motivo di vanto e allo stesso tempo segno di riconoscimento di ogni famiglia.
Verso le tre di mattina, mia madre veniva svegliata da Palma, la sottofornara. Era costei, una donna dall'aspetto magro e longilineo, dotata di sorprendente forza e resistenza fisica. Pensate che alla poverina, per caricare di continuo le scife piene di pane appena sfornato, le si erano tolti i capelli proprio sulla sommità del capo, in corrispondenza del punto in cui la "croglia", posta a mò di ciambella tra il capo e la scifa, determinava un ristagno di calore, causandole così la perdita dei capelli. Le fatiche di Palma erano infinite. Doveva camminare e camminare, caricare e scaricare le scife per cinque o sei volte al giorno, tante quante erano le infornate di pane per almeno cinque o sei clienti per ogni turno.
Anche'ella come ogni bracciante non riceveva la paga. Ogni sera, a fine giornata, le veniva data una pagnotta come compenso del lavoro svolto.
La giornata di Palma iniziava facendo il giro delle chiamate quando l'alba era appena spuntata. Ella, avvicinandosi al portone di casa, con voce sommessa per non svegliare il resto della famiglia, pronunciava questa frase "Mari, arizzuti, ie cummannu, appiccia gli focu i scalla l'acqua" e andava via per fare il giro di tutte le clienti che dovevano infornare alla stessa ora.
Mia madre, cercando di non farci svegliare, silenziosamente scendeva in cucina. Acceso il fuoco e messa l'acqua a scaldare, prendeva la scifa grande con i bordi più alti e vi disponeva, a fontana, tutta la farina occorrente per la provvista di pane. Al centro aggiungeva la pasta lievitata dalla sera precedente, l'acqua calda, il sale e "ammassava". Doveva impastare e lavorare con vigore la massa cosi ottenuta per circa un'ora usando la sola forza delle braccia. Quando l'impasto era diventato raffinato, staccava man mano dei pezzi, li impanava nella "spianatora", li passava cioè nella farina e li rimetteva, sovrapponendoli, nella scifa dove in precedenza era stato posto" gli mantìlo tovaglia bianca di spesso cotone, lavorata a "vago di pepe", anch'essa tessuta a mano e usata solo per il pane.
Quando tutta la massa era stata lavorata, con la mano destra, mia madre vi imprimeva sopra una croce e mentalmente recitava una preghiera, quindi, lasciava riposare. La sacralità di questo atto aveva un duplice significato:ringraziare Dio di aver assicurato alla famiglia il pane quotidiano e affidarsi a Lui per la buona riuscita del lavoro.
Intanto, noi figli, ci svegliavamo con comodo e approfittavamo per fare baldoria nel "letto grande" inventandoci capanne, tende e divertimenti sempre più assurdi e complicati.
Nel 1953, tutta la mia famiglia formata di 8 persone, dormiva in un'unica stanza che durante il giorno appariva spaziosa e ordinata, ma la sera si trasformava in dormitorio. Da angoli inpensabili, infatti, uscivano fuori brande pieghevoli, già pronte per l'uso; bastava togliere un gancio ed il gioco era fatto.
Nella stanza accanto, i miei cugini vivevano la stessa situazione. Ma essendo più grandi preferivano, in estate, trasferire le brande nel balconcino e dormire all'aperto, sotto le stelle.
Oggi per una situazione del genere, si griderebbe all'indecenza e allo scandalo; ieri, rappresentava la normalità ed io l'ho vissuta senza traumi nè angosce tanto da associare il ricordo della nostra stanza da letto ad un grande nido dentro il quale, la sera ci ritrovavamo tutti insieme e questo mi faceva sentire addosso un forte senso di protezione ed un grande calore.
Ma quando, finalmente esauste, smettevamo di giocare scendevamo in cucina per la colazione e qui trovavamo mia madre che era già a metà dell'opera.
Ai miei occhi appariva, però, già stanca e pallida e provavo per lei, una grande tenerezza mentre una malinconica inquietudine s'impadroniva del mio animo. Eppure normalmente, durante il giorno riusciva a trovare il tempo di fare mille cose, mantenendo fino a sera una vitalità sorprendente!
Con il passare degli anni, però, mi sono resa conto che il suo mattiniero disfacimento era dovuto alleggero strato di farina che si posava sui capelli e sul suo viso offuscando, così, la sua bellezza.
Ma ritorniamo a Palma che ritornava dopo circa tre ore. Se il forno era pronto si limitava a dire "Andavia" altrimenti diceva "dacci 'na botta", stando a significare che l'impasto si doveva rimaneggiare un pò per dare tempo al forno di raggiungere la temperatura giusta. Mia madre, quindi, si apprestava a prendere la scifa con i bordi più bassi, dentro vi disponeva la tovaglia bianca e la cospargeva di farina. Staccava un pezzo di massa alla volta e con movimenti rotatori lo lavorara sulla spianatoia per formare una pagnotta. Disponeva questa nella scifa e man mano tutte le altre, avendo cura di separarle tra di loro con lembi della tovaglia per evitare che queste si attaccas sero. Le pagnotte di pane venivano coperte con la mantella e lasciate riposare. Durante quest'ultima fase, ogni volta veniva accantonato un pugno di massa che serviva da lievito per la volta successiva. Esso veniva rinnovato una sola volta l'anno ed in particolari circostanze. Solo la notte dell' "Ascenza", I'Ascenzione, infatti impastando acqua e farina si otteneva la fermentazione e quindi il lievito. In nessun altro giorno dell'anno era possibile il verificarsi di questo fenomeno.
Dopo circa un'ora, ritornava Palma che caricava sul capo la scifa e la portava al forno. Man mano che le scife arrivavano, venivano allineate sul muretto, in attesa che il pane potesse essere infamato, ma guai ad occupare il primo posto vicino al forno, perchè questo era riservato alla scife dei signorotti del paese.
Qui, su questo muretto, la mantella viveva il suo momento di gloria. Essa veniva messa in bella mostra per essere ammirata ed invidiata. La diversità dei colori rappresentava la nota distintiva per risalire alla proprieta ria del pane.
Quando le scife erano tutte sul muretto ed il forno era pronto, Vincenzina cominciava ad infamare il pane. Con gesti rapidi e con grande maestria, cospargeva la "panara" con un pò di farina, vi adagiava una pagnotta di pane, presa nella prima scifa e le imprimeva un segno di riconosci mento che poteva essere, ad esempio, uno o due tagli trasversali, un taglio circolare, un pizzico ecc. e la deponeva al centro del forno. La seconda pagnotta, presa dalla seconda scifa e con un diverso segno di riconoscimento, veniva infornata accanto alla prima. In questo modo veniva esclusa la possibilità che 'le pagnotte si confondessero fra loro. Il metodo adottato nell'infamare, che andava dal centro alla periferia e viceversa, così come prelevare una pagnotta alla volta in ogni scifa, garantiva ad ogni cliente la stessa cottura, poichè in questo modo era esclusa la possibilità che tutte le pagnotte di una sola cliente potessero occupare il posto centrale del forno, ritenuto il migliore.
Solo al pane dei signori era permesso trasgredire la regola. Esso, infatti, veniva infornato per primo e disposto tutto nella parte centrale del forno.
Sarebbe lungo descrivere i vari privilegi acquisiti con la consuetudine e col timore dai vari "sor Tizio" o 'gnora Caia" a scapito della povera gente che passivamente, anzi con riverente inchino, sopportava qualsiasi trattamento venisse riservato loro. Ma non va dimenticato che negli anni Cinquanta c'era ancora molta miseria e le donne, perorando presso le famiglie benestanti qualunque tipo di lavoro domestico, erano abituate alle continue sopraffazioni che subivano con "santa rassegnazione".
Quando il forno finalmente era pieno, veniva chiuso, ma Vincenzina era sempre lì, con occhio attento e vigile, pronta ad intervenire, qualunque inconveniente potesse insorgere.
Ogni tanto apriva appena il coperchio e controllava se il pane "cresceva", se aveva "gli soi" e se prendeva colore.
Quando stentava a colorirsi, ella, pronta faceva "lo iustro", accendeva cioè, in un angolo del forno, qualche rametto di legna secca per rafforzare il calore. Dopo circa un'ora il pane era cotto. Vincenzina riprendeva la "panara", sfornava una alla volta le pagnotte rimettendo insieme nella scifa tutte quelle che avevano lo stesso contrassegno. Ilpane, ancora fumante, veniva ricoperto con la mantella e Palma, ricaricandosi per l'ennesima volta la scifa sul capo, lo riportava a casa della cliente.
Alcune donne del paese, invece, preferivano controllare personalmente le proprie pagnotte recandosi al forno ad aspettare la cottura.
Durante la stagione invernale, quando il freddo entrava nelle ossa e nelle case non esisteva alcun tipo di riscaldamento all'infuori di un focherello debole e insufficiente, il trascorrere qualche ora nel locale del forno rappresentava una vera manna. Era sufficiente la presenza di tre o quattro donne per formare un vivace crocchio che sfociava in chiacchiere, pettegolezzi, dicerie a volte anche crudeli e menzognere. Non mancava inoltre chi, nella convinzione di non perdere tempo, si portava dietro illavoro, sferruzzando con un gioco di quattro ferri corti.
In estate, invece, quando la calura entrava nelle case, i crocchi si trasferivano nei vicoli, dove la frescura offriva un piacevole refrigerio. Ancora non si leggeva molto ma l'oggetto delle conversazioni verteva in genere sul commento delle puntate dei fotoromanzi o di qualche notizia sentita attraverso la radio del vicino. Se un malcapitato si trovava per caso a passare in un vicolo dove sostava in apparente quiete, un gruppo di donne, era come se lo sfortunato dovesse superare le forche caudine. Una volta superato lo sbarramento, veniva in un primo mo mento fotografato a raggi infrarossi con lo sguardo, poi un fiume diparole e di pettegolezziaccompagnavail poveretto per tutto il percorso.
Sfortunatamente questo era ilpassatempo preferito delle donne del paese e continuerà per molti anni ancora a rappresentare un costume di vita.
Finalmente gli anni Sessanta portarono ilprogresso anche a Giuliano.
La diffusione prima della radio ed in seguito della televisione determinarono l'inizio del cambiamento. Nel '55 in casa del dott. Minotti arrivò il primo televisore, subito dopo mio padre acquistò il secondo apparecchio, per evitarci di uscire di casa la sera.
Il "boom" degli anni Sessanta determinò l'esodo definitivo dalle campagne. I figli dei contadini scelsero altri lavori.
La campagna per circa 20 anni si spopolò ed assistemmo al degrado del paesaggio agricolo.
Gli anni Ottanta, invece, hanno prodotto una nuova presenza nelle campagne ed inipoti di.quei contadini che avevano trascorso una vita ad affannarsi a lavorare la terra, sono ritornati alle origini, ma con motivazioni completamente diverse rispetto ai loro nonni.
Mia madre, ostinata ed infaticabile, ha continuato per molti anni ancora, a fare il pane in casa fino a quando, afflitta dalle artrosi, ha dovuto rinunciarvi.
Il Duemila vedrà ilterritorio di Giuliano trasformato ma non stravolto.
Il progresso inarrestabile ha cambiato cose e persone. Il mondo viaggia tanto velocemente che si rischia di perdere anche la nostra storia recente.
Fortunatamente ci rimane un groviglio di memorie che, se solo iniziamo a dipanarlo, ci rendiamo conto di possedere un tesoro di notizie, di ricordi, di emozioni che fanno parte di una storia piccola, semplice, ma che sicuramente vale la pena non dimenticare.